Il generale dei gesuiti seduto tra un’ottantina di bonzi con le mani giunte e lo sguardo raccolto: è la dissoluzione della Compagnia o precisamente il carisma ignaziano di «cercare e trovare Dio in tutte le cose»? Ne parliamo con padre Cinto Busquet
Bisogna dirlo: non è questa la prima volta che il nuovo generale dei Gesuiti fa versare inchiostro. Perlomeno in due episodi – un’intervista in italiano rilasciata a Giuseppe Rusconi per Rosso Porpora e un’altra in spagnolo rilasciata a Jorge Benítez per El Mundo – le sue esternazioni sono state tali da lasciar perplesse frange di fedeli così significative da non poter essere liquidate con lo sbrigativo bollino di “integralisti”. Eppure può darsi il caso che proprio simili episodi abbiano costruito attorno al “Papa nero” una leggenda nera – «gesuiti votati alla dissoluzione della fede!» – tale da pregiudicare l’interpretazione di gesti molto meno discutibili (per quanto ancora fraintendibili a chi manchi del necessario contesto prossimo).
È forse quanto è avvenuto per la famigerata “foto coi buddisti”, che ritrae il P. Arturo Sosa seduto in atteggiamento meditativo al centro di un consesso di giovani bonzi: in Italia è stato lo stimato vaticanista Aldo Maria Valli a segnalare l’istantanea, con la sarcastica chiosa che dovremmo guardare con gratitudine al miracolo operato dai buddisti, per il quale ci è dato di vedere
il generale dei gesuiti in raccoglimento, con la faccia seria e addirittura con le mani giunte!
Chi segue le “cose di Chiesa” è ben avvertito dell’amaro senso di sfiducia nutrito da Valli, da qualche tempo in qua, nei confronti di tutto ciò che sappia di “mondo bergogliano”, anche da lontano: da un lato dunque costui non si sorprende di queste frecciate al vetriolo; dall’altro è pronto a farne giusta tara. Se però fosse stato il blog del giornalista italiano a lanciare un “al lupo al lupo” rivelatosi (a quanto pare) infondato, non ne staremmo neppure parlando: il bacino linguistico della blogosfera italofona è così ristretto da non richiamare grandi attenzioni.
A un rapido controllo sui motori di ricerca, però, s’impone l’evidenza che l’Italia sia entrata nella polemica diversi giorni dopo la pubblicazione della foto, e solo a seguito di più pubblicazioni su vari portali e blog, soprattutto del bacino linguistico ispanico e di quello anglofono. In quasi tutti questi articoli si riproduce la nota – che per comodità riprendo da Valli, ma che chiunque può leggere in cento altri articoli omologhi –:
L’immagine è stata pubblicata con compiacimento dai gesuiti stessi, accompagnata da un commento nel quale si spiega che il padre Sosa è «el primer Superior Jesuita en bautizarse budista», ovvero il primo superiore gesuita che si è battezzato buddista.
Ora, da un lato la lingua della citazione tradisce l’origine ispanica del “tormentone”; dall’altro io non sono personalmente riuscito a rintracciare una fonte originaria della stessa. Sarà stata cancellata? Sarà stata modificata? Ne restano solo numerose copie… “in cerca di autore”. [Un lettore mi segnala che la pagina incriminata sarebbe stata visualizzabile a questo link: se davvero l’infelice espressione fosse stata utilizzata su un sito ufficiale, benché non ufficialissimo, riterrei tale scelta certamente molto criticabile].
La bella notizia, se così si può dire, è che per contro degli amici mi hanno segnalato la pagina ufficiale del sito della Casa del Superiore Generale della Compagnia, che riporta ampi stralci dei discorsi rivolti dal “papa nero” ai confratelli gesuiti in Cambogia, ai collaboratori di Siem Reap e alla comunità locale di monaci buddisti.
Chiunque avrà nel leggerle il piacere di dimenticare come una leggenda superstiziosa le (pur documentate) parole sui registratori e sul diavolo per cui il p. Sosa si era ripetutamente segnalato negli ultimi mesi. Non solo si parla di pace, unità e tolleranza:
In un mondo pieno di tanta violenza, divisioni e intolleranza, siamo chiamati a costruire ponti, a creare una “cultura dell’ospitalità” e dell’accoglienza. In un mondo così pieno di “paura e angoscia”, in cui “la speranza è conculcata”, siamo chiamati a portare la speranza del Signore risorto in tutti i nostri impegni apostolici e in ogni ministero.
Insomma, chi cercasse appigli alla ricerca di un “cristianesimo debole” da denunciare troverebbe solo la solida “speranza del Signore risorto” ad accoglierlo. Ancora, parlando ai collaboratori ha enunciato un principio di missiologia spesso dimenticato un po’ dappertutto:
Ci piace parlare della missione dei Gesuiti coi nostri collaboratori. Ma dobbiamo ricordare la nostra missione non è “nostra”, bensì è la missione di Cristo, e anche noi gesuiti siamo collaboratori in quella missione.
Anche i momenti più “spintamente ecumenici” hanno contemplato un’oculata compresenza di dialogo e di annuncio: ad esempio v’è stata, sì, una benedizione comune delle “ruote della riconciliazione”, e lì i bonzi intonavano le loro benedizioni laddove i cristiani proclamavano le beatitudini evangeliche nella lingua locale (khmer).
La famigerata foto coi buddisti è stata scattata nel momento in cui – lasciando sorpreso lo stesso padre Sosa –, Ven Vuthi, l’“abate” che aveva appena presentato il generale gesuita agli 80 giovani monaci del millenario tempio di Wat Svayromeath, invitava il religioso cattolico a sedere in mezzo ai bonzi raccolti in meditazione. Il commento del P. Kang, un altro gesuita, ci offre quindi la didascalia più esplicativa di quella discussa foto:
È molto insolito che ci si possa sedere lì così, nella tradizione Theravada: anche il re deve mostrare rispetto per i monaci sedendo in un posto a parte.
Un’annotazione che potrebbe diffondere anche tra noi quel sano stupore dell’altro che opportunamente reclama la compagnia dell’umiltà: quello che nel nostro contesto atlantico siamo soliti chiamare “mondo” è normalmente un’infima porzione di una limitata area del planisfero; quanti nel nostro “mondo” sono più versati nella sua multiforme cultura sono quelli che hanno qualche dimestichezza con la sua storia particolare e le sue peculiari tradizioni. Ma
ci sono più cose in cielo e in terra, caro Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia,
ci ammonì Shakespeare. E del resto, la gesuitica tendenza a “mimetizzarsi” (facendosi paolinamente “tutto a tutti”) è stata quella che storicamente è valsa l’avanguardistica idea di adattare i riti della Chiesa inculturandoli nei contesti di missione: la controversia “dei riti cinesi” si dovette al gesuita teatino Alessandro Valignano, e lasciò al successore del suo immediato successore – il grande Matteo Ricci – una terribile gatta da pelare. Le fazioni tra congregazioni e ordini non mancarono di alimentare un dissenso che di per sé verteva su una materia delicata ma non inestricabile (non era certo la polemica de auxiliis, eppure durò di più e fece cadere più teste): non sarà ozioso ricordare che la pietra tombale sulla questione la mise il coltissimo e raffinatissimo Benedetto XIV, il quale proibì assolutamente “i riti cinesi”; e la tolse il romanissimo e conservatorissimo Pio XII, che li ripristinò.
E dunque andiamo a parlare di buddismo con padre Cinto Busquet. Spagnolo, filologo moderno, biochimico, focolarino e missionario in Giappone (Tokio e Nagasaki) per quasi vent’anni. Decisamente il profilo adatto per un traghettatore dei due mondi.
Leggi anche:
http://www.cintobusquet.cat/
Come si comporta oggi il cristianesimo dove è conclamata minoranza di fronte non al secolarismo ma ad altre religioni, che magari non sono “positive” anche se si rifanno a fondatori storici?
La situazione è per forza diversa da Paese a Paese, oltre a variare di religione in religione: il caso dell’Islam è buono per esemplificare – vi sono i Paesi che hanno la sharía come legge fondamentale ed altri, come l’Indonesia, che pur essendo a maggioranza largamente musulmana sono tradizionalmente molto tolleranti.
Per quanto riguarda invece le tradizioni asiatiche, il buddismo è in genere molto tollerante, anche se ci sono situazioni in cui la tendenza violenta e fondamentalista delle persone prevale sul genuino portato religioso; l’induismo pure è solitamente tollerante, con varie deprecabili eccezioni… la situazione è complessa. In genere diremmo che nei Paesi di tradizioni spirituali dell’Asia la tolleranza reciproca sia la norma.
Lei conosce per esperienza personale il Giappone, ma è stato anche in Cambogia?
No, non ci sono stato quindi non conosco il posto per esperienza diretta, anche se ho alcuni contatti: il Paese è di forte tradizione buddista, maggioritaria, come in tutta l’Indocina. C’è un cristianesimo dialogante, e che va alla ricerca dei Semi del Verbo – come diceva Giustino e come ha ricordato il Concilio – e di ciò che ha precorso Gesù e l’annuncio del suo Vangelo.
Benissimo, ma torniamo quindi al Giappone cristiano, che l’anno scorso è tornato alla ribalta della scena mondiale con Silence – film capace di aprire un acceso dibattito – dove pure si parla di missioni gesuitiche: che impressione le ha fatto?
Intanto, come film, un grande film. Una metafora non soltanto della situazione giapponese e non soltanto la descrizione storica (molto ben fatta, tra l’altro, di quel momento del Giappone, della persecuzione sistematica del cristianesimo), ma mi pare metafora dell’uomo attuale, dell’uomo occidentale ma anche dell’attuale società giapponese. In che senso? Nel senso che il film lascia intravedere questa difficoltà di fondo radicata di capire le categorie cristiane. Le categorie di un Dio che può essere amore e allo stesso tempo permettere tanta sofferenza; di questo Dio che tace, come dice il titolo del romanzo di Shūsaku Endō, ispirazione del film.
Insomma penso che sia, dal punto di vista artistico, cinematografico, un eccellente film. Anche dal punto di vista della riflessione su Dio – il Dio creatore, il Dio provvidente, il Dio personale… – riflette bene le difficoltà dell’annuncio evangelico in certi contesti.
E qual è stato (qual è) lo stile dei gesuiti nel Sol Levante?
È uno stile rispettoso: loro dall’arrivo di Francesco Saverio (1549) hanno portato un tipo di annuncio che cercava di capire la cultura locale, di entrare attraverso i meccanismi di comprensione della mentalità del posto e poi dopo hanno avuto questa lunga esperienza di persecuzione, insieme ad altre congregazioni missionarie. Per quanto riguarda il Giappone contemporaneo, a partire dall’epoca Meiji, alla fine dell’Ottocento c’è stata un’impostazione chiara, simile a quella che c’era stata con Matteo Ricci in Cina. Penetrare attraverso la cultura. Per esempio, la fondazione dell’università Sophia a Tokio, ormai avvenuta quasi un secolo fa, è un tentativo in tale direzione. Solo pochissimi tra gli studenti dell’università sono cristiani, ma quest’opera in quel contesto dà un messaggio molto incisivo , che dà autorevolezza alla missione cristiana svolta dalle parrocchie e da altre istituzioni cattoliche.
Mi sembra che questo sforzo di penetrare nella cultura e conoscere i semi evangelici nella tradizione religiosa e spirituale locale sia conforme al dettame evangelico e alla missiologia della Chiesa. E poi dopo, a un certo punto, passare oculatamente all’annuncio esplicito di Gesù e del suo Vangelo, che può portare al desiderio di diventare cristiani. Questo richiede tempo: è un dialogo che si apre anche alla conversione, ma che già in sé stesso sa mostrare l’amore di Dio.
Il caso delle critiche a Sosa mi ha ricordato un po’ la vicenda dei Riti Cinesi: è destino della Compagnia quello di essere attaccato su certe aperture missionarie?
Non ho letto molto, in merito, ma per quanto comprendo penso di poter dire che certe critiche siano totalmente prive di fondamento, e mi spiego: riconoscere l’azione dello Spirito in qualsiasi tradizione spirituale autentica fa parte dello stile cristiano di evangelizzare. Non soltanto come strategia per entrare…
…ci mancherebbe: anche la Dominus Iesus riconosce che c’è un’economia dello Spirito fuori dai confini visibili della Chiesa…
…esatto: questo è già Magistero della Chiesa, quindi non si tratta di un sincretismo semplicistico, ma di vedere al di là dei confini visibili della Chiesa per constatare che lo Spirito del Risorto arriva ovunque. E come dice la Lumen Gentium, «per il mistero dell’incarnazione il Figlio di Dio si è in un certo modo unito ad ogni uomo». E si riceve tanto: io mi sento in debito con tanti fratelli buddisti perché mi ha aiutato e mi aiuta tutto quello che riguarda una sana interiorizzazione, un mettere ordine tra pensieri, sentimenti, emozioni… penso che il grande contributo della tradizione buddista sia questo. E ciò non esclude l’accoglienza piena e gioiosa dell’annuncio dell’incarnazione di Dio nella persona di Gesù Cristo.
No, ma infatti abbiamo visto che lo stesso Padre Sosa, nei discorsi ufficiali riportati, dice: «Ci piace parlare della missione gesuitica tra noi collaboratori, ma vogliamo ricordare che la nostra missione non è la nostra, ma è la missione di Cristo, e che anche noi gesuiti siamo collaboratori in questa missione». Quindi non mi pare che sia stato sincretista o altro…
Proprio così. Certamente noi portiamo un annuncio esplicito di Cristo: rendiamo possibile la presenza visibile della Chiesa, ma Cristo è già lì. Abbiamo l’incontro tra culture e tra persone che in qualche modo sono già unite a Cristo e che danno la vita… e che ci danno anche loro Cristo, sebbene in un altro modo. Per cui anche noi riceviamo, e il nostro cristianesimo viene arricchito dal contatto con fedeli di altre religioni che sinceramente, autenticamente vivono secondo la loro tradizione.
…E dunque la dinamica non le ricorda quella dei “riti cinesi”?
Sì, certo, è così: lì come qui si evidenzia l’incapacità di mettersi al posto dell’altro, nonché la facilità di giudicare secondo i propri schemi da lontano, secondo una mentalità latina o addirittura italiana… oggi come allora alcuni si considerano custodi e dispensatori della verità, e quindi colpiscono coi loro anatemi a destra e a manca. Insomma, avremmo dovuto superare quell’epoca…
Voi focolarini vi sentite additati allo stesso modo? Come reagite? Ci sono eccessi (che magari “tra di voi” riconoscete e accusate)?
Penso che cerchiamo di aprire nuovi fronti secondo le indicazioni della Chiesa, e non sempre veniamo capiti in ciò che facciamo. In tal senso la Compagnia di Gesù è paradigmatica: un grande carisma, persone capacissime e libere – perché lo Spirito rende liberi – e non si può dubitare della loro fedeltà alla Chiesa. Penso che tutti dovremmo puntare a essere più “larghi” e liberi da certa miopia spirituale e intellettuale.
Quanto a noi, alle volte riceviamo critiche che ci tacciano di buonismo – tipo “all you need is love” – e ci accusano di non tenere presenti la sana e retta dottrina. Io penso che effettivamente il cristianesimo si incentri tutto sull’amore, ed è lì che la Chiesa manifesta il suo volto vero. Sono critiche che il più delle volte vengono da persone ecclesialmente un po’ deboli, nella Chiesa di oggi, che è quella del Concilio e quella di Francesco, e in definitiva quella di Gesù.
Per ciò che riguarda gli “eccessi” direi questo, ovvero ciò che vedo dal di dentro: non sempre c’è una formazione adeguata o sufficiente. Può capitare – ed è capitato – che alcune persone affrontino certe sfide un po’ alla leggera, alla “tutto va bene”, ma questo non accade nel movimento in quanto tale, nei suoi dirigenti e nelle sue direttive, dove mi pare che ci sia la preparazione sufficiente per tenere insieme dialogo e annuncio in modo che si completino e che siano due espressioni dell’evangelizzazione che non entrano in contraddizione. Anzi.
Quali sono le prospettive di dialogo pratico tra cristiani e buddisti, nell’Estremo oriente? E ci sono anche frontiere “teoretiche”?
Dal punto di vista pratico direi che centrale nel buddismo è il concetto di compassione: il punto centrale dal punto di vista dell’etica cristiana è la carità, l’agape. Da questo punto di vista ci incontriamo, nell’amore concreto, vissuto; nel servizio ai più bisognosi, nella collaborazione a nuove vie di rinnovamento della società. Da questo punto di vista ci sono diverse iniziative buone, in diversi Paesi.
Dal punto di vista teoretico, invece, ci troviamo di fronte a una religione – il buddismo – in cui non si parla neanche di Dio, ma che si volge a dare risposta ai problemi immediati, esistenziali della persona umana. Penso che ci possiamo trovare anche lì, ma riconoscendo una diversità di vedute. Dal punto di vista cristiano c’è un di più: c’è l’annuncio “Dio ti ama”, “Dio esiste”, “Dio è amore”, “Dio si è reso vicino in modo pieno nella persona di Gesù morto e risorto, e puoi incontrarlo nella sua Chiesa”. Questo in un buddismo fedele all’esperienza fondante del Buddha penso che non entri in contraddizione. Mi spiego: penso che ci possa essere un’inculturazione buddista del cristianesimo, o – detto altrimenti – penso che possano esistere buddisti che a un certo momento diventino cristiani senza rinnegare tutta la loro tradizione.
Dice insomma che il buddismo è un sistema aperto…
Sì… di per sé sì, anche se ci sono vari buddismi: c’è il buddismo Mahayana, più evoluto, in cui il Buddha viene praticamente divinizzato – in quelle scuole la cosa si complica un po’. Ma nell’esperienza originaria, ossia quella di sanare l’uomo nella sua insofferenza radicale, penso che ciò che fa il buddismo sia perfettamente accettabile dal cristianesimo. Viceversa, da parte loro c’è un’interpretazione di Cristo come un bodhisattva, un illuminato, una persona che esprime parole di rara saggezza, per cui anche renderci conto che ogni tradizione ha gli elementi per interpretare l’altra dal proprio punto di vista. E qui entriamo già sul piano della fede, sul piano personale, in cui uno accetta la veduta cristiana oppure la veduta di fondo buddista.
Ma il punto centrale – penso – è che il soprannaturale, il sacro, per il cristiano ha un volto, quello di Gesù, che ci riporta a questo volto infinito di amore che è il Padre. Significa che Dio è personale in sé: il cristianesimo offre un’esperienza della divinità che è in sé personale, la quale produce un’esperienza comunitaria, dialogica, il primo passo della quale è essere costituiti come persone. Per cui siamo chiamati a creare relazioni con il prossimo. Dal buddismo invece abbiamo questa indefinitezza – c’è questo karma, c’è questa legge universale, il Dharma –: tutto viene analizzato dal punto di vista solo fenomenologico, e l’io si diffonde. E lì c’è la scelta di ognuno di dire “no, credo nel Dio che mi rende persona e quindi è persona in sé stesso, anzi è tripersonale”; oppure “no, noi in sé non siamo nessuno – sono gli altri che ci fanno esistere”. Sono prospettive non totalmente inconciliabili: anche la nostra trinitaria ci dice che non possiamo esistere fuori da un rapporto. Per questo il cristiano può rispondere: è vero che non siamo senza relazione, ma in una relazione particolare – quella col Figlio e in Lui – anche noi possiamo essere figli, altro che “non siamo nulla” – possiamo entrare nell’essenza profonda di Dio!
Sosa parla di ricerca comune della pace e difatti, come accennavamo prima, l’immagine che abbiamo del buddismo è generalmente molto pacifica: qualche dato di cronaca (storiche proteste dei monaci che si danno fuoco in Tibet, persecuzioni attive nello Sri Lanka…) ci offre spaccati un po’ diversi. Come si spiega?
La natura umana è quella dappertutto, indipendentemente dall’impalcatura dottrinale che questa o quella cultura ci mette. C’è nell’uomo la possibilità di vivere in donazione piena e amorevole o di tirare fuori tutta quella violenza che ha contro l’altro. È un’affermazione malata di sé stessi. La natura umana conserva sempre almeno virtualmente la declinazione del cainismo, l’andare contro il proprio fratello.
Cerchiamo di alleggerire, in chiusura: consideriamo il “buddismo pop”. Le faccio due citazioni di due canzoni. Vorrei che lei me ne facesse un rapido commento.
[io dico addio] alle magie di moda delle religioni orientali
che da noi nascondono soltanto vuoti di pensiero.(F. Guccini, Addio)
Lezioni di nirvana,
c’è il Buddha in fila indiana,
per tutti un’ora d’aria,
di gloria.(F. Gabbani, Occidentali’s Karma)
Che glie ne pare?
Sì, sono versi che cercano di ridicolizzare certi atteggiamenti. Il fatto è che in genere nel mondo occidentale, in questi ultimi decenni, senza avere una base teoretica profonda, certe persone anche con delle esigenze spirituali di ricerca, hanno preso queste culture senza essere sufficientemente coscienti di ciò che c’è dietro – come visione del mondo, come interpretazione della realtà. Secondo me sono tutti fenomeni che denotano una non sufficiente profondità di approccio al fatto religioso.
Questa vulgata occidentale del buddismo è nota, in Oriente? Come viene vista?
Bah, guardi, anche lì dipende: i monaci o le associazioni buddiste, così come anche i Lama tibetani, sanno bene che il buddismo “vende”: per questo si aprono centri in questi Paesi per accogliere occidentali in cerca di esperienze religiose orientali. Le persone un po’ più lontane – tenga presente che il Giappone oggi è molto secolarizzato – no, non se ne accorgono neppure. La maggior parte delle persone non ha una tale sensibilità culturale-religiosa.
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