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Incontro con l’astronomo del Vaticano

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© ALESSIA GIULIANI/CPP

Sylvain Dorient - Aleteia Francia - pubblicato il 27/07/17

Guy Consolmagno, gesuita, vive con la testa fra le nuvole. Ci assicura: «L’universo ha un bel voler essere immenso, ma noi non siamo piccoli agli occhi di Dio».

In piena notte stellata, sotto la cupola di un osservatorio, ai piedi di un telescopio, un brillante studioso si gratta la barba, quando ancora non era sale e pepe… sta in ansia. La domanda che lo assilla non è l’espansione dell’universo, né le stelle giganti, e neppure il mistero dei buchi neri, ma “A che servo io sulla Terra?”.

«Perché darsi pena per le lune di Giove quando ci sono persone che muoiono di fame sulla Terra?», si chiede. La domanda è sufficientemente seria perché il giovane astronomo, nel 1983, decida di riportare in soffitta il telescopio. Eppure era avviato a una carriera brillante, insegnava all’Osservatorio dell’Università di Harvard e al MIT. Nondimeno si è presentato, con la sua preoccupazione, a Peace Corps, un’organizzazione umanitaria americana, per diventare volontario. Dice ai responsabili per la selezione delle risorse umane:

Andrò dove mi direte di andare. Farò tutto quello che mi direte. Voglio solo aiutare la gente.

E fu così che si ritrovò in Kenia… a insegnare astronomia agli studenti universitari di Nairobi… A questo punto rispolvera il telescopio senza crucciarsi. Nel 1991 pronunciò i suoi voti di frate gesuita e divenne astronomo all’Osservatorio del Vaticano.

Chi ha paura del “silenzio eterno”?

Guy Consolmagno non vede contraddizione tra il suo mestiere di astronomo e il suo stato di vita da religioso. Ci assicura che queste due componenti della sua vita si nutrono a vicenda. Eppure, la contemplazione del grande nero costellato ne ha gettati parecchi, nell’inquietudine, a cominciare da Blaise Pascal, terrorizzato dal «silenzio eterno degli spazi infiniti». Ma – ci ricorda il gesuita – se generalmente si conosce la frase dell’angoscia non ci si ricorda altrettanto spesso come prosegue il testo, nel quale Pascal assicura che quella vertigine porta salvezza: l’uomo, tra i due abissi dell’infinito e del nulla, è costretto a cambiare la sua curiosità scientifica in ammirazione e, tremando davanti alle meraviglie che osserva, «sarà più disposto a contemplarle in silenzio che a cercarle con presunzione». Frate Consolmagno vede nelle dimensioni vertiginose dell’universo l’espressione dell’immensità del potere creatore di Dio. E malgrado questa immensità l’umanità, così piccola, è preziosa agli occhi di Dio! «È una vecchia storia, basta rileggere il Salmo 8», dice riferendosi ai versetti:

Se considero le opere delle tue mani,
la luna e le stelle che hai creato,
che cosa è l’uomo perché te ne curi,
e il figlio dell’uomo perché te ne dia pensiero?

E la creazione non è soltanto grande, ci assicura il nostro astronomo, è pure bella: «Guardando le stelle si contempla Dio nella sua maestà». La scienza aiuta a toccare con mano l’armonia sottesa allo spettacolo delle costellazioni. «In nessun caso la natura è caotica», assicura, anche quando un fenomeno sembra imprevedibile o capriccioso – non c’è niente di più interessante, per lo scienziato. La fede non riduce in nulla la prospettiva scientifica:

Al contrario – ci assicura – ne allarga la prospettiva, inserendo la persona in una storia che la oltrepassa e che dà senso alle sofferenze del momento presente.

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]

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astronomiafedefede e scienza
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