Perché sono le stesse domande che ho sentito porsi dalla madre di un ragazzo così simile a Luca, anche lui morto per un incidente, sebbene in circostanze più oscure, nel bel mezzo della sua giovane e promettente vita. Ora che Luca è morto, si chiede la sorella, a che è servito tutto questo studiare? I viaggi? I corsi? L’apparecchio ai denti?
Avrà provato quella sensazione di spreco, di sforzo vano, di cose costruite negli anni, sebbene brevi, e poi franate su sé stesse?
La mamma si affretta a raccontare, a favore di telecamera, come a voler rassicurare tutti, il motivo per cui a suo avviso non c’è stato nessuno spreco. Ha potuto vivere anni bellissimi a Torino! Spiega con calore e fermezza.
Ci sono sempre un qui e ora, un luogo e un tempo. Fino al punto di intersezione tra il qui e ora terreno e l’inizio della vita oltre la morte. Non ha dubbi Cristina, oppure li ha vinti. O li lascia in un angolo ad impolverarsi mentre lei continua a seguire l’impeto della vita in sé, in sua figlia, in suo marito, negli occhi forse tremuli di commozione dei compagni di studio e passione del figlio. Me la immagino anche a piangere, questa cara mamma, che sembra farsi carico del dolore degli altri per ridurlo in frantumi.
È credente, profondamente credente, dice l’articolo. E allora ha anche gli argomenti giusti per dire a tutti che non dobbiamo vergognarci di essere pure felici perché Luca non è stato inghiottito dal nulla. Perché tutto ha un senso, anche le barbabietole e il loro disgustoso saporaccio. Anche l’azoto che circola più copioso nel sangue dei nostri fratelli tibetani. Anche le nuvole nei loro rapidi, scomposti balletti.
È una dolce, pacata mestizia, quella che passa soprattutto dagli occhi della sorella e del papà e che in Cristina, la mamma, sembra vinta, come in un’ascesi, da una gioia perseguita con disciplina. In fondo, un figlio, lo hanno già sistemato. E non può essere altrimenti per chi si ricorda ancora che, una volta nati, l’unico vero problema è scegliere la salita giusta e arrivare al Cielo.