In attesa delle nuove decisioni della Corte, una riflessione sulla vicenda
di don Vincent Nagle
Mentre scrivo Charlie Gard è ancora vivo in un Ospedale a Londra. Charlie, il bambino di dieci mesi che ha una rara malattia genetica, che sta peggiorando e non può sopravvivere senza l’aiuto di una macchina che lo fa respirare, è figlio di due giovani genitori che non vogliono mollare le cure, mentre l’ospedale dice d’aver provato tutte le vie loro conosciute per aiutare il bambino e dicono che è ora di cessare le cure invasive e permettere che la vita di Charlie segua il suo corso naturale verso la morte perché soffra inutilmente.
Voglio offrire un paio di osservazioni prese dalla mia lunga esperienza nell’accompagnare sia famiglie come quella di Charlie e anche operatori sanitari come quelli dell’ospedale.
La prima osservazione è che l’amore desidera dare vita. Chi ama desidera la vita per l’amato. E vivere per noi umani è una questione di rapporti. La vita la riceviamo attraverso rapporti, i rapporti che portano significato alla nostra esistenza. Perciò quando parlo con le famiglie che devono decidere per le cure del loro amato, e cominciano e dire frasi come “L’unica cosa importante è che non soffra,” chiedendo dose di antidolorifici che renderebbe non cosciente il malato, io cerco di aiutarli a non cedere a questa angoscia che li assale e di pensare a cure che potrebbero permettere contatto e comunicazione fra loro e il loro caro, anche se questo potrebbe aumentare un rischio di aumentare la sofferenza.
Molte occasioni mi hanno fatto vedere che il contatto e comunicazione sono capaci di rendere sia il paziente sia i cari pieni di gratitudine in queste circostanze drammatiche. La sofferenza è da combattere, ma non a qualunque costo.
Nel caso anche del piccolo Charlie, la sofferenza non è l’unico criterio ragionevole per valutare come precedere nelle cure. Favorire i rapporti che lo fanno vivere fa parte della cura della persona, anche della persona malata e sofferente che non guarirà.
La mia seconda osservazione ha a che fare con le persone che hanno accettato la sfida di aiutare il malato all’interno dell’ambiente sanitario. I molti anni trascorsi come cappellano ospedaliero e adesso come cappellano di una fondazione di cura, mi ha fatto identificare molto con l’impegno, le prove, le speranze e difficoltà di chi si assume il compito della cura. Ho vissuto pienamente a contatto di questi casi molto dolorosi. Ho visto molti soffrire e fare lo sforzo di tenere in vita attraverso le misure invasive, in apparenza violenti, la persona cui sistema biologico era compromesso oltre ogni speranza.