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Il caso di Charlie: le due domande da chiarire

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Centro de Estudios Católicos - pubblicato il 03/07/17

La seconda, sorprendentemente, sembra non essere compresa dalla maggior parte degli opinionisti

di Elton Chitolina

La sentenza giudiziaria che ha stabilito che debbano essere staccati gli apparecchi che mantengono in vita il piccolo Charlie Gard sta suscitando grandi polemiche principalmente su due domande.

La prima domanda

La prima domanda riguarda l’ambito bioetico: nel caso in cui le possibilità di cura siano estremamente remote, vale la pena sottoporre il bambino a una terapia sperimentale?

La domanda è quella che domina in apparenza la maggior parte delle discussioni su questo caso. La maggioranza di chi sostiene la decisione giudiziaria sembra addurre argomentazioni come la “sofferenza inutile del bambino”, l’“esaurimento delle risorse della medicina”, le “possibilità irreali di cura”, ecc.

La seconda domanda

C’è però una seconda domanda che sorprendentemente gran parte dei commentatori e degli opinionisti sembra non affrontare con chiarezza: quella dell’ambito del diritto.

È una domanda semplice e diretta: è lo Stato a decidere la risposta alla prima domanda?

Detto in altri termini, se una famiglia vuole tentare un’ultima risorsa a favore della vita di un figlio per conto proprio, per quanto le possibilità di successo siano praticamente nulle, lo Stato ha la prerogativa di proibirla? Lo Stato ha l’autorità legittima per obbligare un padre e una madre a staccare le apparecchiature che tengono in vita il loro bambino vivo quando c’è ancora una seppur remota e labile speranza di cura?

E altre domande: nel caso in cui lo Stato abbia questa autorità, su cosa si basa? Su quali principi si fonda questo tipo di Stato?

È una domanda che dovrebbe far venire i brividi a qualsiasi cittadino sottoposto a qualsiasi tipo di Governo di fronte a un caso come questo, perché implica un precedente estremamente pericoloso: quello di uno Stato che si presume democratico che si è arrogato il potere sulla vita e la morte dei suoi cittadini malgrado la volontà e le risorse di questi.

È questo lo Stato che desideriamo? In questo caso dobbiamo essere consapevoli del fatto che si tratta di uno Stato che permette all’arbitrio di un gruppo di magistrati di decidere in modo assolutistico contro il diritto naturale di un padre e di una madre di tenere il figlio vivo finché non muore per l’esaurimento di tutte le risorse lecite disponibili – risorse, del resto, che nel caso di Charlie sarebbero messe a disposizione dagli stessi genitori e dalle donazioni di migliaia di volontari, e non dallo Stato.

Ancora una volta è importante distinguere: non ci stiamo attenendo solo alle questioni bioetiche, ma stiamo affrontando una questione di diritto, una questione di autonomia dei cittadini di uno Stato. Anzi, stiamo parlando del concetto stesso di Stato e delle sue prerogative sui cittadini.

Il concetto di “morte naturale”

Se riusciamo a capire la distinzione tra le questioni bioetiche e quelle relative al diritto, possiamo anche capire importanti distinzioni collegate a un altro concetto fondamentale di questa polemica: quello di “morte naturale”, ugualmente avvolto in una pericolosa nebulosità.

Facciamo un esempio.

Immaginiamo il caso di un adulto in coma irreversibile al quale restano poche ore o pochi giorni di vita – impossibile prevederlo esattamente. Il fatto è che questa persona è molto vicina alla morte e la sua vita è mantenuta solo grazie all’ossigeno amministrato artificialmente.

Nel caso di questa persona, quale sarebbe una “morte naturale”?

Varie delle opinioni esposte nelle discussioni sul caso di Charlie hanno fatto ricorso a questa considerazione: se la persona respira solo grazie a un apparecchio, allora la morte che la aspetta in poche ore o pochi giorni non è “naturale”, visto che c’è un’evidente interferenza artificiale.

Questo punto di vista a prima vista ha senso, ma visto che il concetto di “naturale” non è univoco sono necessarie alcune considerazioni aggiuntive.

È vero che nell’esempio citato i mezzi per mantenere la vita sono artificiali: non solo l’apparecchio che fornisce l’ossigeno, ma anche il letto d’ospedale, l’ospedale stesso, gli esami che i medici fanno ancora per stimare il tempo rimanente di vita del paziente… Perfino gli abiti che il paziente sta usando sono artificiali. Nessuna di queste risorse è uscita dalla terra o è caduta dagli alberi. Nessuna è “naturale” nel senso più immediato del termine, come cosa fornita direttamente dalla natura.

L’essere umano, per rimanere in vita, ricorre continuamente a risorse che esistono perché la sua inventiva ha agito su materie prime della natura e le ha trasformate mediante la tecnica, ovvero mediante l’artificio. Rimanere vivi smette per questo di essere naturale?

Risorse artificiali, processi naturali

Quando sentiamo freddo, ricorriamo ad abiti che non sono stati colti nel bosco ma fabbricati. Questa risorsa, i vestiti, è artificiale, ma l’atto di proteggerci dal freddo ricorrendo al vestiario è perfettamente naturale, e deriva dal nostro istinto naturale alla sopravvivenza e all’autopreservazione. Anche se la risorsa impiegata per riscaldarci fosse una rude e “naturale” pelle di pecora, rimarrebbe una risorsa artificiale: alla fin fine, è stato necessario intervenire nei processi della natura per tosare la pecora e preparare la sua pelle ad essere “vestita”. Insomma, per quanto il mezzo impiegato per scaldarci (abiti) sia stato reso disponibile per il nostro utilizzo grazie a un intervento artificiale dell’inventiva umana, non vuol dire che l’atto di ricorrervi non sia naturale come processo. È naturale ricorrere a qualche tipo di protezione contro il freddo, e il fatto che il vestiario sia artificiale non fa sì che il processo di proteggerci smetta di essere naturale.

Ciò si applica praticamente a tutti i processi naturali della vita umana. Nutrirci è un processo del tutto naturale, ma implica interventi tecnici o artificiali anche se di tipo basico e manuale: sbucciare, affettare, bollire, o quantomeno lavare… Ben poco di quello che mangiamo è fornito dalla natura, ma l’alimentazione non smette di essere un processo naturale a causa degli interventi tecnici che la rendono più comoda, sicura e sostenibile.

Quando si parla di “morte naturale” non si sta parlando di una morte quasi magica nella quale si prescinde radicalmente da qualsiasi risorsa artificiale di preservazione della vita. Se fosse così, neanche un centenario morto a casa, nel proprio letto, durante il sonno avrebbe avuto una “morte naturale”, visto che alla fine dei conti contava su risorse artificiali che in qualche modo hanno “interferito” nella modalità della sua morte: il letto, il fatto di stare in una casa, gli abiti che indossava… Se si dovesse prescindere del tutto da qualsiasi risorsa artificiale per garantire l’autentica “naturalezza” di una morte umana, allora sarebbe obbligatorio, come minimo, morire nudi, all’aria aperta, sdraiati a terra – e qualsiasi altra morte sarebbe “non naturale” perché avrebbe subito una “determinazione” di qualche “artificiosità”, in grado maggiore o minore.

Morte naturale come “auto-esaurimento” della vita nonostante le risorse

La “morte naturale” è un concetto più semplice di questo: è la morte che “si lascia avvenire” e che si verifica “per conto suo” quando tutte le risorse a disposizione per sostenere la vita si sono esaurite o hanno smesso di essere efficaci. Non importa se queste risorse erano artificiali: una coperta che scaldava il malato, una medicina che alleviava i suoi dolori, un apparecchio che gli forniva l’ossigeno… La “naturalezza” della morte consiste nel processo in cui si muore perché si sono esaurite tutte le risorse disponibili perché venga mantenuta la vita, lasciando che la natura determini, pur disponendo di risorse artificiale, l’istante in cui la vita finisce perché quelle risorse hanno smesso di essere sufficienti a mantenerla.

Di conseguenza, la morte non naturale è quella in cui un intervento umano determinante e imputabile ha impedito l’accesso a una risorsa possibile e disponibile, anche se artificiale, per mantenere la vita fino al suo auto-esaurimento; è la morte che è stata “accelerata” mediante la soppressione di un mezzo a cui la vita ricorreva per il proprio codice naturale di auto-preservazione.

È anche anti-naturale, all’altro estremo, voler “dribblare” la morte per accanimento terapeutico, impedirla in modo vano quando tutte le risorse disponibili e abbordabili sono già state esaurite e il tentativo di prolungare la vita artificialmente è causa solo di sofferenza inutile e sproporzionata, senza alcuna prospettiva di inversione di marcia, neanche minima.

Il discutibile e l’indiscutibile

Nel caso di Charlie, la terapia sperimentale negli Stati Uniti, proibita dalla Giustizia britannica e poi da quella europea, era vista dai genitori non come un accanimento terapeutico, ma come una risorsa ancora possibile che nonostante l’efficacia incerta meritava almeno un tentativo. Si può discutere sull’ipotesi che questo punto di vista fosse oggettivo o soggettivo.

Ciò che è sicuramente ben lungi dall’essere indiscutibile è che la risposta a questa domanda bioetica debba o possa essere imposta dallo Stato.

[Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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