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Ma Marco Prato era (purtroppo!) già morto prima di essere arrestato…

Luca Prato

Lucandrea Massaro - Aleteia Italia - pubblicato il 22/06/17

Scegliere il male, scegliere una "contro-vita" fatta di droga e violenza è questo che lo ha ucciso nel profondo

La triste e orrenda vicenda dell’omicidio di Luca Varani si arricchisce di un nuovo dramma. Uno dei suoi presunti assassini, Marco Prato, si è suicidato in cella alla vigilia del processo che lo avrebbe visto protagonista insieme a Manuel Foffo. I contorni della vicenda, lo ricorderete, erano un mix di droga, sesso estremo e cieca violenza. Il Foglio ricorda così la vicenda:

Centosette coltellate, la ferocia “al solo fine di procurargli sofferenza fisica” secondo la procura, che chiede la condanna per omicidio premeditato pluriaggravato per Prato e il suo complice Manuel Foffo, che dopo giorni di “party” decidono di uscire per Roma a cercare qualcuno da uccidere, e rimediano Luca Varani, ventitreenne, già conosciuto dal Prato. Lo stordiscono e lo massacrano, poi i dettagli e la pazzia nessuno li saprà mai. Foffo chiede il patteggiamento, prende 30 anni, Prato aspetta in carcere il processo ordinario, dà varie versioni, si dice innocente, scopre e annuncia d’essere sieropositivo, dice d’essere succube del Foffo, che ama. Si uccide. Ci aveva già provato, poco prima d’essere arrestato. Ha il mito di Dalida e dopo aver abbandonato la scena del crimine prende una stanza in un hotel vicino casa, hotel San Giorgio, tre stelle, nel quartiere borghese della Nomentana, prende i barbiturici, si infila sotto il letto e aspetta il suo destino nella camera 65, ascoltando “Ciao amore”. Tutti pensano a una messinscena.

Ora al di là del legittimo desiderio della famiglia Varani di avere giustizia, una famiglia che – alla notizia – reagisce così:

Il consulente legale dei Varani ha detto che “la mamma di Luca Varani, appresa stamattina la notizia del suicidio di Marco Prato, ha pianto. Ho appena sentito il padre di Luca e di nuovo ho colto la grande umanità e la compostezza di questi genitori”.

quello che ci preme dire è che non c’è nulla di buono nel suicidio di Marco Prato che anzi è “vittima” non solo perché si è tolto la vita nel carcere di Velletri, ma perché si è privato della coscienza quando era fuori dal carcere. Monica Mondo sul Sussidiario scrive, con nettezza:

chi ha saputo solo vivere social non regge, se ha i social contro o se si spengono sulla sua vita. Chi non è mai cresciuto, né è stato aiutato a crescere, non si rende conto neppure dei suoi reati, o peccati, fino all’obnubilamento della coscienza.

C’è una corruzione peggiore di chi ruba, ed è la corruzione dell’anima. L’essere così preda del male da non riconoscerlo, da godere nel vederlo, realizzarlo, per poi negare perfino di esserne parte. Certo, una vita è una vita, e che pena, che angoscia, che vergogna per una generazione di adulti che ha dato così poco ai suoi figli per vederli finire così. Ma il male è personale, la sua responsabilità mai collettiva, checché ne dica la sociologia buonista corrente.

Basta parlare di giovani, a trent’anni compiuti, quando si è uomini fatti. Basta parlare di follia, se non è diagnosticata come patologia psichica. Anche la soggezione agli stupefacenti che rende malata la mente non è una giustificazione. C’è la possibilità di scegliere, e continuare a scegliere. Non si trattava di due disperati privi di lavoro e casa, scappati dalla miseria e perduti nell’insensatezza per non dover soffrire. Se la passavano bene, avevano soldi e un nome, poveretti loro.

E’ così? Certamente Marco Prato era un narcisista immaturo, di certo la ricerca costante di emozioni in un mondo di paillettes e di amicizie mai vere fino in fondo (basta guardare come in tanti hanno fatto finta di non conoscerlo nel mondo dei vip e della movida della “Roma bene” all’indomani dell’arresto) non lo ha aiutato a maturare, ma dopo una certa età si sceglie che tipo di persona essere. Poteva scegliere di usare diversamente i suoi talenti, piangiamo per la vita perduta di Marco Prato, perché nessuno merita di morire e tanto meno merita di farlo in carcere, piangiamo per l’angoscia che può averlo assalito mentre meditava questo gesto, certamente anche per una situazione carceraria – quella italiana – incapace di comprendere e di prevenire la solitudine e i convincimenti suicidi di chi è affidato alla sua custodia, ma piangiamo di più l’uomo che era quando da uomo libero, liberamente si accaniva contro la vita.

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