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Come ho imparato che essere incinta significa “diminuire”

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Kate Madore - pubblicato il 20/06/17

Il senso di “perdere se stesse” viene trasformato in qualcosa di meraviglioso grazie a San Giovanni Battista

Alla fine ho avuto il coraggio o la pazzia di dire quello che provo durante una gravidanza: anche se non ho mai sperimentato un dolore estremo, ho provato ogni volta una particolare sofferenza mentale.

I calci del quinto bambino sono più pesanti di quelli del primo. Ho visto la bellezza e la brutalità del travaglio già quattro volte, e ho tirato fuori da me i miei figli e le mie figlie. Le mie lacrime hanno inondato le testoline dei miei bambini umidi e grinzosi non appena mi sono stati appoggiati sul petto. Ho aspettato col respiro sospeso di sentire quei piccoli polmoni sussultare con le prime boccate d’aria. Ho guardato quattro volte, nel dolore intrecciato a una gioia immensa, una persona che nel mondo intero conosceva e desiderava solo me. La promessa di tutto questo è in ogni colpetto del mio quinto figlio.

Come sempre, però, mentre ingrosso e la nascita si avvicina, non so chi sono. Sono sopraffatta da questa presenza, da questa persona, mia figlia; ha preso il controllo, e sento che alla fine mi perderò a suo favore.

Il mio senso di “perdersi” non riguarda le limitazioni esterne dei comportamenti in base alle raccomandazioni mediche. Dimenticarsi sushi e vodka non è piacevole, ma non altera la mia concezione di me stessa. Parlo di qualcosa di interno e inamovibile, dell’incapacità di dimenticare l’altro essere avvolto nella mia carne, e come questo dia colore ai miei pensieri.




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Quando sono incinta mi ritrovo ad allontanarmi in qualche modo dalle amicizie. Il mio cuore spesso sembra appartenere a due mondi: uno lavora, studia e ama la mia nuova bambina, che non ho ancora visto, mentre l’altro è prigioniero del dolore o della lotta quotidiana di sentirsi persa dietro di lei, e i due cuori in genere arrivano a una tregua e mi ritrovo a non avere niente da dire.

Perché? Perché quello che “io” voglio fare o pensare o dire è inevitabilmente avvolto nel “noi” – noi due rappresentate da me. La mia comprensione di ciò che mi costituisce in quel momento è fluttuante – il mio corpo cambia, ma lo fanno anche il mio cuore e la mia mente – e sto avviando un rapporto completamente nuovo. Come mi cambierà? Chi sono ora?

Nei momenti migliori sono piena di stupore per questo. Quella piccola esitazione che si fa strada nella mia mente prima di comportarmi non come una donna, ma come una donna con un bambino è un dono, è gioia, e non posso contemplarlo sufficientemente. Signore, sono sopraffatta dalla tua bellezza.

Nei momenti peggiori mi sento alienata. Voglio comportarmi come me stessa, solo me, e non considerare “quello che sta facendo la donna incinta”. Voglio che quando entro in una stanza gli occhi si fissino nei miei e non stiano solo ad analizzare la mia pancia o il modo in cui parlo o mi muovo. Posso fermarmi solo per un momento e sentire il mio “io”, che Dio ha creato in un modo particolare, irreplicabile? Mi manca. L’ho perso.

Ma mentre porto dentro di me questo quinto bambino, mia figlia, capisco che “perdita di sé” è la definizione sbagliata.

Sto sperimentando una diminuzione dell’io – una contrazione, un’ibernazione – che è la risposta giusta e corretta all’opera di un’altra persona che si prepara a entrare nel mondo.




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Quest’anno ho trovato sollievo contemplando la diminuzione di qualcuno che conosceva bene il proprio io e il proprio obiettivo, un uomo vigoroso. Mi riferisco ovviamente a Giovanni Battista. Ha scelto la diminuzione ma non per questo è diventato debole, mostrando invece la forza che riconosce le cose eterne mentre faceva un passo indietro. La spiegazione di Giovanni – “Egli deve crescere e io invece diminuire” – deriva da quell’essere radicato nel Signore che non ha bisogno di spiegazioni.

Giovanni Battista è diminuito di modo che Cristo potesse crescere – come se questo non potesse verificarsi senza la resa di Giovanni –, ma perché Cristo era lì, al momento stabilito. Il momento della mia bambina è questo, si sta verificando ora, nella mia carne, nei miei tessuti e nei miei muscoli. La sua presenza è necessariamente al primo posto, e come mio fratello Giovanni Battista mi sento diminuire, ridurmi, dietro la mia bella pancia.

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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