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“Beati quelli che sanno ridere di sé perché non finiranno mai di divertirsi”

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L'Osservatore Romano - pubblicato il 19/06/17

Per una Teologia dell’umorismo

di Catherine Aubin

Cristo ha senso dell’umorismo? Si possono vedere tracce del suo sorriso nei vangeli? Guardiamolo per esempio nell’episodio di Maria e di Marta. Mentre sua sorella Maria è seduta, attenta, ai piedi di Gesù, Marta si agita per servire e mettere in ordine la casa. Gesù le dice: «Marta, Marta, ti agiti». Ha dunque osservato una Marta agitata, anzi disattenta; non la rimprovera, non la giudica, no, la chiama e la richiama a se stessa. E possiamo immaginare che lo faccia con un sorriso, con indulgenza e compassione, il tutto venato di un certo umorismo.

Allo stesso modo, nell’episodio ben più drammatico della donna adultera, non c’è da parte sua una sorta di umorismo quando dice: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei»? Una frase che rimanda l’altro a ciò che è, senza condannarlo, ma mirando proprio al punto giusto, se così si può dire.

I Padri del deserto sono noti per le loro parole gustose, piene di umorismo e di insegnamenti. La loro visione delle cose della vita è in un certo modo “decentrata” rispetto alla visione dei discepoli. Il loro sguardo e il loro discernimento lasciano “il mondo” per vedere e giudicare secondo “la salvezza”. Questa facoltà di distanziarsi crea uno sfasamento con ciò che è considerato normale. Da questo scarto nasce l’umorismo. Così facendo, praticano due cose: da una parte l’umorismo come arte di distanziarsi dal mondo per puntare meglio all’essenziale, e dall’altra una forma di sfasamento o di scarto dinanzi all’irruzione della grazia nella sfera dell’umano. Il comportamento “folle” dell’uomo di Dio è dunque il segno che tutte le norme, incluse quelle religiose, non sono all’altezza di fronte alla salvezza di Dio. La salvezza crea una differenza. Questa differenza è lo spazio per una parola, uno sguardo, un gesto pienamente spirituali. Ecco una storia famosa che illustra tutto ciò.

«Un fratello sbagliò una volta a Scete. Si tenne un consiglio al quale fu convocato abba Mosè. Ma quest’ultimo rifiutò di andare. Allora il sacerdote gli mandò a dire: “Vieni che tutti ti aspettano”. Si alzò e andò con un cesto bucato riempito di sabbia, portandolo così sulle spalle. Gli altri, venutigli incontro, gli dissero: “Che cos’è, padre?”. Il vecchio disse: “I miei sbagli si stanno perdendo dietro di me e non li vedo; e io, sono venuto oggi per giudicare le colpe degli altri?”. All’udire ciò, non dissero nulla al fratello, ma lo perdonarono».

All’origine dell’umorismo cristiano c’è la fiducia in Dio misericordia le cui vie e i cui pensieri sono diversi da quelli degli uomini e per il quale un principio di verità e di carità in un cuore umano non ha prezzo. La sua santità invita a una saggia modestia dinanzi ai limiti umani. Poiché è nelle piccole cose quotidiane — problemi di salute, incomprensioni, contrattempi — che il senso dell’umorismo genera un allargamento del cuore, una sorta di dilatazione interiore che placa e apre gli occhi del cuore sull’essenziale. Questa fiducia in Dio crea un clima di distensione dove il sorriso può nascere a dispetto di qualsiasi sentimento di vergogna, di colpa.

San Filippo Neri, il santo dell’umorismo e dell’amenità ne è un esempio famoso. Il suo buonumore costante lo rende vicino a tutti, non lo isola, anzi egli sa, nel più profondo di sé, che siamo tutti soggetti alle stesse debolezze. La sua vita è piena di aneddoti, piena di buonumore, di arguzie e di insegnamenti. Aveva l’abitudine di nascondere dietro apparenze così umane, così semplici, i favori mistici più alti. I suoi scherzi avevano quasi sempre un fine preciso: voleva ingannare gli altri quando percepiva che un’estasi incombeva su di lui. Più Dio era presente, più l’uomo in lui restava semplice. Il tratto caratteriale che affascinava i suoi amici e disarmava i suoi nemici era la sua aria festosa, una sorta di allegria che accompagnava armoniosamente la grazia dei suoi modi. La sua parola d’ordine per entrare nella vita spirituale era: «Siate umili, siate bassi!». Si raccomandava continuamente a Dio dicendo: «Signore, non ti fidare di me! Oggi potrei tradirti».

Un giorno una romana perbene si accusò di sparlare e di calunniare i suoi vicini. San Filippo Neri le diede la seguente penitenza: doveva tornare a casa sua seminando lungo il cammino le piume di un pollo che avrebbe comprato al mercato. E se si fosse rimessa a sparlare, avrebbe dovuto subito confessarsi per cercare di correggersi. La brava donna si mise immediatamente in cammino spennando il pollo, ma la sera stessa, alquanto scrupolosa, ritornò a confessarsi perché aveva sparlato di nuovo. Il santo la perdonò, le diede l’assoluzione e le disse: «Come penitenza, ritornate per le strade attraversate e raccogliete a una a una le penne della gallina». In questa storia divertente e sorprendente, l’umorismo prende le distanze dalla realtà. Questo distaccarsi non è una forma di difesa o un rifiuto di lasciarsi dominare. Prendendo le distanze, l’umorismo suscita una dimensione nuova; fa nascere inaspettatamente un punto di vista originale sull’evento e opera così un cambiamento di piano che permette di guardare al fatto in modo diverso. In altre parole, il modo di pensare del mondo si sposta per fare spazio al punto di vista della salvezza.

San Tommaso Moro era noto per il suo senso dell’umorismo. Era un suo tratto caratteriale e un metodo: «Mi si rimprovera di mescolare battute, facezie e parole scherzose con i temi più seri. Credo che si possa dire la verità ridendo. Di certo si addice meglio al laico, quale io sono, trasmettere il proprio pensiero in modo allegro e brioso, piuttosto che in modo serio e solenne, come fanno i predicatori». Il suo umorismo era espressione di una gioia profonda alimentata dalla fede. Mentre saliva sul patibolo, chiese all’ufficiale che lo conduceva al patibolo, «per quanto riguarda la discesa, lasciami fare da solo». Poi consigliò al boia di mirare bene perché aveva il collo un po’ corto, e una volta messa la testa sul ceppo, disse ancora scherzando di preservare la barba che gli era cresciuta durante la sua prigionia nella torre di Londra: «Essa non ha tradito, quindi non deve essere tagliata».

Papa Francesco, nel suo discorso alla Curia dello scorso dicembre, ha fatto il catalogo delle malattie, dove ha avuto cura di menzionare san Tommaso Moro. Ha detto: «Non perdiamo dunque quello spirito gioioso, pieno di humor, e persino autoironico, che ci rende persone amabili, anche nelle situazioni difficili. Quanto bene ci fa una buona dose di sano umorismo! Ci farà molto bene recitare spesso la preghiera di san Thomas More».

Ecco la preghiera: «Signore, donami una buona digestione e anche qualcosa da digerire. Donami la salute del corpo e il buon umore necessario per mantenerla. Donami, Signore, un’anima semplice che sappia far tesoro di tutto ciò che è buono e non si spaventi alla vista del male ma piuttosto trovi sempre il modo di rimetter le cose a posto. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri, i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama “io”. Dammi, Signore, il senso del buon umore. Concedimi la grazia di comprendere uno scherzo per scoprire nella vita un po’ di gioia e farne parte anche agli altri».

San Tommaso Moro menziona qui una caratteristica fondamentale del buon umore: «Non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama “io”». In effetti l’umorismo richiede uno sguardo acuto e una buona conoscenza di sé. Chi applica questa forma di auto-derisione a se stesso, o agli altri, non è né cieco né troppo ingombrato dal suo ego. L’umorismo mantiene a una sana e giusta distanza da se stessi. Vale a dire che permette di vedersi con i propri difetti e le proprie mancanze e di riderne, non in modo ironico o disincantato, ma con dolcezza e tenerezza. Come il Signore stesso fa quando ci guarda. Senza dubbio come in una risposta di un film di don Camillo.

Gesù: «Toh, guarda chi si rivede: Don Camillo! Be’, hai perso la favella?». Don Camillo: «Signore, quante volte vi ho chiamato in questi tre anni e mai mi avete risposto, mentre ora, ecco di nuovo la vostra voce. Dio è più vicino qui che a Roma». Gesù: «Don Camillo, Dio è sempre alla stessa quota, qui ti pare più vicino perché qui sei più vicino a te stesso».

Alla qual cosa i Padri del deserto avrebbero risposto: «Mio Dio, se sei dovunque, come può succedere che io sia così spesso altrove?».

QUI L’ORIGINALE

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