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È una bambina: fiocco celeste!

Chinnapong - Pink blue ribbon | Shutterstock

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Giovanni Marcotullio - Aleteia - pubblicato il 23/05/17
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A pochi giorni dalla nascita della figlia, un uomo scopre che fino a pochi decenni fa non era il rosa il colore “per le femminucce”. E gli crolla una delle (poche) certezze che avevaAccidenti, ora che con mia moglie aspettiamo che venga alla luce la nostra primogenita ci mancava solo questa: ho scoperto che di per sé alle bambine spetterebbe il fiocco celeste e non quello rosa. Come se non bastasse la mera filologia, ho pure scoperto che dietro all’alternativa “celeste-rosa” si nasconderebbero toccanti motivazioni religiose (neanche troppo nascoste, a dirla tutta). Risultato: mi pare di aver perso, dietro a questa, tutte le poche certezze con cui mi preparavo ad accogliere e a segnalare la presenza di nostra figlia in casa.

Celeste o rosa? Questo è il dilemma

Da una parte mi sollevo e mi dico che avrò pur sempre qualcosa di forbito con cui puntellare la risposta alle immancabili osservazioni che ci faranno sul lettino: la bruta realtà è che il lettino, celeste, ce l’ha regalato una collega di mia moglie. Che lo ha usato per un maschietto, guarda caso. Poi c’è il set di passeggino, ovetto e seggiolino da automobile – rigorosamente nei toni del blu anche quelli – che ci sono stati gentilmente passati da un cugino. Il quale ha usato e dismesso il tutto per un figlio (maschio, appunto). A ben pensarci, non so se con la “risposta forbita” convincerò almeno me stesso.

Ma torniamo indietro, così spiego per bene da dove nasce il cruccio: se poi riuscirò a trasmetterlo anche a voi, sappiate che di tutto dovrete incolpare mio fratello, il quale per primo mi ha messo la pulce nell’orecchio. Dunque il fatto sarebbe semplicemente questo: neppure da cent’anni a questa parte, stando ai fatti, il rosa sarebbe il colore delle femminucce e il celeste il colore dei maschietti. In effetti Aurora, la principessa Disney per eccellenza, ci viene quasi sempre in mente con l’abito rosa… ma non è vero! Aurora veste in rosa solo da qualche decennio in qua, attendendo le bambine con rigidità di bambola dagli scaffali dei negozi di giocattoli. Nel film (che comunque è già del 1959!) veste spesso in celeste (e comunque sempre nelle scene “importanti”). Solo a una delle tre fate madrine viene in mente di confezionare un abito rosa per la giovane, e difatti c’è una memorabile scena in cui due delle tre madrine, azzuffandosi sul rosa e sul celeste, finiscono per produrre sul tessuto del vestito un maquillage inguardabile.

Forse i disegnatori Disney – attenti conoscitori delle tradizioni iconografiche, ma anche acuti osservatori dei mutamenti sociali – hanno voluto stigmatizzare la pasticciata confusione che veniva perpetrata in quelle decadi sul portato di una distinzione della quale pochi ormai sapevano riconoscere il significato. In fondo anche Belle veste in celeste, Jasmine lo stesso e pure Cenerentola… Ariel è praticamente nuda e non conta, Pochaontas è un personaggio storico e non di fantasia, quindi non conta neanche lei; Alice non è protagonista di una fiaba ma veste in celeste anche lei e poi… santo cielo: anche Elsa, la grande Regina delle nevi, veste in celeste!

Ma non era il principe a essere azzurro? Sì, azzurro di nome, mentre di quel colore i principi Disney hanno sì e no gli occhi, a farci caso: non manca mai invece un mantello amaranto o una cintura rossa. Il mistero s’infittisce, e non mi sento affatto rassicurato quanto alla certezza di capire in tempi utili che fiocco potrò mettere alla porta quando vi farò passare la pargoletta.

Un po’ di storia…

Insomma, spieghiamo il criterio che starebbe dietro alle colorazioni originarie.

il rosa starebbe ai maschietti come stemperamento del più intenso rosso, che sarebbe colore eminentemente virile per una serie di ragioni – le quali vanno dalla porpora degli imperatori romani al manto di Cristo com’è codificato in una certa iconografia moderna; viceversa, il celeste starebbe alle femminucce come attenuazione del più forte blu, prezioso frutto del lapislazulo con cui nella modernità i pittori hanno onorato Maria, la più alta delle regine e delle donne.

«Dunque – mi dico incredulo – vestendo in rosa un maschietto lo staremmo indirizzando al più alto modello di virilità che la storia conosca, ossia, parola di Dostoevskij, Gesù Cristo?». Già, per quanto sembri assurdo. E in effetti questo spiega perché il principe Arthur, tra le braccia della madre, la regina Vittoria, sia vestito di raso rosa e pizzo bianco. Il quadro che li raffigura è dell’esatta metà del XIX secolo!

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«Ma è ridicolo! – riprende un’altra parte di me – Quale sarebbe dunque la ragione di questo repentino cambiamento?». Almeno, che so, quanto a Babbo Natale possiamo raccontarci che il vestito rosso gli sia stato affidato da quando, nel 1931, l’antico San Nicola divenne suo malgrado testimonial della Coca Cola (ed è falso anche questo: già Thomas Nast nel 1881 lo disegnava con gli abiti rossi, alternandoli ai verdi, destinati a minore fortuna). Ma perché addirittura invertire il rosa e il celeste nel momento in cui questi fossero già affermati? Fortuna che all’università del Maryland c’è Jo B. Paoletti, una docente di “American Studies”, che nel 2012 ha pubblicato un libro apposta per rispondere alla mia angosciosa domanda: il suo Pink and Blue: Telling the Boys from the Girls in America spiega tutto, al di là di ogni ragionevole dubbio.

Come una parte di me segretamente temeva e un’altra segretamente sperava (cosa volete: siamo in molti qui dentro…), la realtà è molto più prosaica delle suggestive teorie per cui già si imbastivano fior di ragioni procontro. Pare infatti che – ed è la prima cosa che impariamo – fino al XIX secolo a nessuno sia mai venuto in mente di attribuire un colore peculiare ai bambini, tantomeno distinguendoli per sesso: i bambini venivano vestiti tutti di bianco, almeno nelle classi sociali che non disponevano di mezzi per differenziare il vestiario a seconda delle occasioni. La ragione risulterà evidente anche a chi avesse poca dimestichezza con la biancheria: essendo quella dei bambini particolarmente soggetta a ogni tipo di sporco, andava lavata ad alte temperature, con inevitabile perdita di brillantezza per qualsiasi colore si fosse scelto.

Comunque sembra che dalla metà del XIX secolo, e ispirandosi a diverse considerazioni, si cominciassero a differenziare per via cromatica i bambini dalle bambine: fino alla Grande Guerra, però, i due colori pastello erano ben lungi dal giocarsi l’esclusiva sul vestiario neonatale. Ora, voi non ci crederete (perché non ci credevo neanche io), ma nel giugno del 1918, ovvero quando il mondo sfrigolava ancora tra le follie dell’“inutile strage”, qualcuno trovava che la questione meritasse un contributo analitico in una rivista di commercio. Così sull’Earnshaw’s Infants’ Department si legge:

La regola generalmente accettata è rosa per i maschietti e blu per le femminucce. La ragione è che il rosa, essendo un colore più deciso e più forte [sic!], si conviene maggiormente al maschietto, mentre il blu, che è più delicato e fragile [!], sta meglio alla femminuccia.

Nel 1927 – quando il mondo era tornato grasso e mancavano ancora due anni al fulminante crack di Wall Street – sarebbe stata la rivista Time a spendere una parola autorevole nel cruciale dibattito: in un inserto venne pubblicata una tabella che illustrava le tendenze delle ditte più in voga per il vestiario infantile – e così a Boston Filene’s disse ai genitori di vestire in rosa i maschietti. Così fecero Best & Co. a New York City, Halle’s a Cleveland e Marshall Field a Chicago.

La faccenda è sempre meno chiara: tutti i documenti vanno «in direzione ostinata e contraria» al dato incontrovertibile della nostra esperienza diretta. Fino alla Seconda Guerra Mondiale nessuno avrebbe avuto dubbi: rosa ai maschietti, celeste per le femminucce.

La Paoletti ritiene che l’inversione di tendenza sarebbe arrivata appunto con la diffusione popolare del clima di prima rivoluzione sessuale: insomma, già dagli anni ’50 le donne avrebbero cominciato apposta a vestire le bambine “da maschi” – cioè in rosa. Per qualche tempo le industrie restarono indecise sul da farsi – pare che per due anni, nella decade dei ’70, il Sears Roebuck & Co. Catalogue non promosse alcun indumento infantile rosa – e poi si ricordarono la regola fondamentale del “libero mercato”: follow the money.

Anzi, spiega la sociologa, non appena il mercato capì la nuova musica si mise a suonarla con un’enfasi tutta sua: così negli anni ’80 – quando il “gender-neutral clothing” fu programmaticamente ucciso nel mercato – i maschietti non potevano più essere vestiti con semplici tutine celesti (visto che le loro proprie, rosa, le avevano sequestrate le bambine – ovviamente per essere più virili e avere più possibilità di realizzarsi, nella vita!), ma con tutine celesti su cui campeggiavano orsetti, palloni, mazze da baseball, missili e tutto quanto si presumeva poter identificare con nettezza la mascolinità.

…e di filosofia

Insomma il mercato assecondava il capriccio estemporaneo delle femministe, permettendo loro di vestire le figlie in rosa (cioè “da maschio”), ma proprio per non perdere nessuna delle due metà del cielo ha rinforzato di puntelli identitari il “nuovo rosa”, destinato alle femmine, e il “nuovo celeste”, destinato ai maschietti. Così i maschietti avevano perduto il “loro colore” (stando alle definizioni della letteratura dedicata), le femministe avevano perso la loro partita (perché per assecondare il loro colpo di mano il “colore da maschio” era diventato “colore da femmina”) e il mercato aveva guadagnato nuove fette di pubblico. Se prima infatti un solo corredo neonatale, normalmente bianco o comunque neutro, poteva assolvere alle necessità di dieci figli, da quel momento in poi i corredi sarebbero stati almeno due, se i figli non fossero venuti tutti del medesimo sesso. E non sarebbero costati quanto quelli bianchi, né quanto dei generici corredi colorati, perché i nuovi sono proprio “da maschietto” e “da femminuccia”, come solidi test anatomici e sgargianti disegnini ricamati attestano all’unisono. E quindi bisogna pagare di più: mica vorrai confondere tuo figlio (o tua figlia) sulla propria identità sessuale?

Di sicuro resta che confusi lo siamo noi: bastano trent’anni di pubblicità perché consideriamo “patrimonio innato” una mera convenzione nata per un capriccio e strutturata per fini commerciali. E mi torna in mente una pagina di Una gioventù sessualmente liberata (…o quasi), di Thérèse Hargot, che a corollario di analoghe considerazioni aggiungeva:

E comunque è curioso: dopo mezzo secolo di femminismo che difende l’uguaglianza sopra ogni cosa in nome del fatto che uomini e donne non sarebbero in fondo differenti, la volontà di strombazzare con ogni pompa a che genere i bambini appartengono non è mai stata tanto importante! Da un lato, siamo una generazione che non sopporta nemmeno una parola che differenzi le femminucce dai maschietti, e dall’altro non abbiamo che una domanda sulla punta della lingua, davanti a una donna incinta: «Allora, cos’è?», domanda che in quel “cosa” sottintende che appartenere al genere umano non conferisca alcuna identità. Si dice: «È una femmina!», oppure: «È un maschio!» (p. 132).

Rosa e celeste: c’è (ancora) posto per i simboli sacri?

Ma… e le elevazioni religiose che avevo trovato all’inizio? Il blu del manto della Madonna? Il rosso delle vesti di Gesù? Ecco l’idea che mi sono fatto dando un’occhiata in giro alle testimonianze che ho trovato: non è impossibile che il rosa dei maschietti abbia davvero qualcosa a che fare con Gesù, né lo è che il celeste delle femminucce abbia a che fare con Maria. Si tratta, è vero, di codici iconografici sviluppati perlopiù nella modernità e consolidati nella (spesso cattiva) arte sacra dell’Ottocento; d’altro canto, proprio questo è il periodo che riguarda le nostre osservazioni. C’è un argomento che, meglio dell’arte sacra in sé, me ne persuade: la liturgia cattolica ha una dimensione popolare che è fonte, e non effetto, dell’ispirazione artistica; e nelle parrocchie, nelle confraternite, nei paramenti liturgici, nei gonfaloni per le feste religiose, effettivamente, tutti hanno sempre percepito (almeno fino a qualche decennio fa) che il celeste fosse un colore eminentemente mariano. Allo stesso modo le devozioni moderne al Sacro Cuore e al Sangue Preziosissimo di Cristo hanno sempre indicato nel rosso – già colore “virile” in quanto imperiale – un simbolo cristologico.

Per contro, bisogna ammettere che non si trovano in giro (o almeno io non ne ho trovate) fonti che attestino esplicitamente questi riferimenti religiosi: l’obiezione non squalifica in toto l’ipotesi, chiaramente, perché non tutti i fenomeni di costume vivono di tradizione scritta – anzi normalmente i loro simboli sono tanto autoevidenti che la memoria scritta è quasi l’eccezione. Di sicuro però sta il fatto che qualsiasi cosa sia intervenuta a invertire quella convenzione che nel 1918 appariva comune ed evidente – le guerre mondiali, il femminismo, il consumismo, la contestazione, lo star system, la pubblicità, il gender… – esse hanno potuto operare su di un panorama simbolico che si andava desertificando. Il mercato, di per sé, non aveva alcun interesse a cancellare Gesù e Maria (si vendono bene anche loro, anzi!), ma si è rassegnato a speculare sulle conseguenze di un’evacuazione simbolica già consumata.

Insomma, che fare?

Poi non è mancato chi si sia messo a compilare liste di fonti pro e contro questo o quell’abbinamento: non m’impressionano molto, data la necessaria incompletezza di ogni elenco (ogni raccolta di dati non è mai, di per sé, una tesi, ma quasi sempre viene prodotta sotto l’influenza di un’ipotesi già espressa). Niente, a girare e rigirare le informazioni che ho trovato non riesco a decidermi: il fiocco per mia figlia lo compro celeste o rosa? La controrivoluzione non è mai stata la mia matrice teoretica, e anche se volessi metterla sul piano di una semplice resistenza culturale non vorrei esporre la mia bambina alla dialettica distruttiva dei suoi coetanei, che certamente le chiederebbero ragione del suo essere vestita “da maschio”. No, non funziona e non se ne esce: quel Disney era un volpone, altroché, e nella battaglia delle due fate madrine aveva forse caricaturato il rimescolamento dei colori canonici, e magari intendeva porre la cosa in connessione con la presenza sovrabbondante di figure femminili. Temo che dovrò rassegnarmi a un banalissimo e comunissimo fiocco rosa. Ma sì, in fondo le abbiamo dato il nome di quella martire che sant’Ambrogio disse “matura per la testimonianza della fede” «in un tempo in cui la fede si faticava a trovarla tra gli uomini». Un virile rosso sangue ci sta, quantunque stemperato. E allora vada per il rosa!


Per approfondire si legga anche Michel Pastoureau, Blu. Storia di un colore