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Le 5 cose giuste che stai già facendo per tuo figlio

PADRE FIGLIO PINOCCHIO
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Paola Belletti - Aleteia - pubblicato il 22/05/17
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Non è di un altro manuale per l’autostima dei figli che abbiamo davvero bisognoHo fatto una ricerca su Google. Chiavi inserite: manuale genitori autostima figli. 480mila risultati.

Quattrocentottantamila, in italiano. Significa che partiamo dalla certezza che una buona autostima sia garanzia di benessere.

E dalla ulteriore convinzione che il benessere sia sempre da ricercare. Ho anche io, come credo molti di voi, qualcuno di quei titoli nella libreria e ne ho tratto giovamento. Almeno temporaneo, almeno per sedare il mio irrequieto desiderio di trasmettere, quasi di iniettare nei miei figli un senso stabile di stima di sé.

Vorrei dire due cose, in proposito:

La prima. Forse l’autostima non sempre è il primo livello, il primo costrutto psicologico, dicono gli studiosi, sul quale lavorare. Per il quale spendere tante energie e investire consistenti aspettative.

La seconda: che non dobbiamo per forza sempre “lavorare”, attendere direttamente, immediatamente, al benessere dei figli.

Né solo dopo esserci affannosamente formati, addestrati a farlo. Ovvero chiedendo ad altri la competenza che crediamo di non avere. Sbagliamo a porci questo problema, o per lo meno a renderlo l’unica chiave di lettura di quel gran guazzabuglio che è ed è sempre stata l’educazione, come dice egregiamente il professor Franco Nembrini insegnante, dirigente scolastico e grande educatore!

Non trovate che far scivolare il tema dell’educazione sul piano delle competenze genitoriali sia rischioso e porti in sé delle gravi insidie per genitori e figli?

La nostra autorità è tale senza competenza. Lo dico con un’intuizione del filosofo franco-tunisino Fabrice Hadjadj, nel suo Ma che cos’è una famiglia?

L’essere genitori è appunto essenzialmente un trovarcisi, un esserlo. Malgrado sé, grazie a sé e alla differenza sessuale, tra uomo e donna, che genera figli senza preferenze. E questa differenza crea quella generazionale tra genitori e figli. Il filosofo parla di una generosità che ci travalica, che ci passa attraverso per la via misteriosa e carnale della sessualità. Invece con le possibilità tecnologiche e delle biotecnologie in particolare abbiamo in mano uno strumento pericolosissimo in ordine alla tentazione di spiritualizzare l’uomo, di sottrarlo alla sua carnalità. Ci permette e ci dà l’illusione di scegliere una persona, di produrla-quindi di controllarne la scaturigine, affrancandoci dalla aleatorietà dell’atto sessuale- in vista delle sue performance.

Questo slancio, questa tentata rapina del potere di decidere della vita, di industrializzare addirittura la produzione di bambini, arriva ammorbidito e normalizzato fino alle rubriche dei settimanali femminili. Passa per siti dedicati a genitori impegnati e volenterosi. Arriva nelle nostre teste.

Invece possiamo uscire da questa logica e azzerare la corsa del contachilometri verso la specializzazione e le competenze ripartendo dal positivo, dal dato. Da ciò che abbiamo già, quella dotazione di base che la natura ci provvede da sempre. Proprio da quell’autorità senza competenza che ha definito Hadjadj. Nasciamo figli e potenzialmente genitori, in grado di generare e crescere figli.

Credo allora che ci sia una notizia importante che dobbiamo far girare tra noi. Che dovrebbe diventare virale, realizzare non so quante visualizzazioni, essere indicizzata febbrilmente da tutti i motori di ricerca.

Ed è questa: stiamo già facendo cose buone per i nostri figli. E molto probabilmente le più importanti.

Almeno 5, ne sono sicura.

  1. Al primo, primissimo posto è che noi siamo i loro genitori. E che loro ci sono, grazie anche a noi. Condizione amorosamente necessaria e realisticamente, per fortuna, non sufficiente. L’estensione principale di questo dato di fatto, radice viva del nostro essere madre e padre, è il nostro amore reciproco: anche ora, al tempo dei rapporti polverizzati in una società cosiddetta liquida, se ci amiamo come marito e moglie fedelmente, esclusivamente, appassionatamente stiamo facendo una cosa bellissima anche per i nostri figli.


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  2. La seconda cosa è che siamo sinceramente, segretamente o sfacciatamente felici che loro ci siano. E glielo facciamo sapere anche senza accorgercene. Forse solo ogni tanto. Fosse addirittura preterintenzionale, ma il messaggio “Che bello che ci sei!” deve esserci sfuggito più di una volta. Nonostante le mille contraddizioni nelle quali cadiamo per stanchezza, pochezza, immaturità, pressioni esterne. Anzi no, per via del peccato. È per via di quello, per quella inclinazione al male che spesso ci vince che tradiamo l’amore che pure sentiamo.


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  3. Eppure anche noi, che siamo cattivi, come ci assicura senza sconti Nostro Signore, «non diamo scorpioni da mangiare ai nostri figli!» ( cfr Vangelo di Luca, 11, 11-13). La terza cosa essenziale che facciamo per loro è proprio che diamo loro da mangiare (a volte troppo), da vestire (spesso non riescono nemmeno ad indossare quello che arriva da varie fonti nei loro armadi!), dove dormire: ricordiamocelo. È vero, c’è la crisi, l’incertezza morde le caviglie di tanti di noi, a volte per brevi periodi, altre in modo prolungato e così umiliante! Alcuni davvero faticano a fare la spesa e questo è davvero triste! Non lo è, per esempio, non avere la wi-fi disponibile in treno. O non poter frequentare il corso di equitazione. O dover rinunciare alle scarpe con le luci.
  4.  Il quarto punto dell’elenco è un’omissione. Ed è giusta, è una cosa buona, per loro e per noi. Ci scordiamo ogni tanto di preoccuparci di loro! E questo, amiche, amici, lettori occasionali è oro. Non siamo noi a tenerli in vita con il nostro preoccuparci continuo. Non siamo noi gli Arcangeli che possono volare al loro fianco e sguainare spade fiammeggianti. No. Ed è così perché non sono solo nostri. Che sollievo!


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  5. La quinta cosa buona che facciamo per loro è la più importante in assoluto: abbiamo parlato loro di Gesù! Abbiamo instillato nel loro cuore, soprattutto quando sono bimbi piccoli e così immediati nel riconoscere il soprannaturale, quel Santissimo Nome, quelle due dolcissime sillabe e l’immagine del Suo Volto! Se li abbiamo già fatti battezzare li abbiamo innestati nel Suo Corpo. E se ci accorgessimo della verità sostanziale di questo fatto salteremmo sulla sedia più volte al giorno! E ancora: se stiamo cercando di convertirci noi, senza dire molto, stiamo facendo vedere loro come si fa a diventare davvero grandi. Cioè restando figli. Siamo figli, bambini di Dio. Ho sentito dire da un santo sacerdote questa espressione meravigliosa: «Quando saremo vecchi decrepiti staremo per nascere!» (Padre Antonio Maria Sicari).


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Di questo dobbiamo preoccuparci ed occuparci sul serio! Per questo dobbiamo sentire una fretta del diavolo e usare tutta la paziente dolcezza innamorata degli angeli di Betlemme che cantano al Dio incarnato lì per terra, vicino a due bestie fumanti dal naso. Solo per questo.

«Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Vangelo di Matteo 6, 33).

Cercate prima il Regno dei Cieli e il resto vi verrà dato in sovrappiù. Significa che c’è un’unica priorità e che tutto ciò che ci affanna è meno importante, anche se occorre, ma è definito “il resto” e, soprattutto, viene detto che ci verrà dato! Non è un problema nostro.

Se fossimo rimasti semplici donne del popolo, anche un po’ ignoranti ma radicate, intrise di Vangelo saremmo ben più furbe. Io lo sarei senz’altro. Sarei meno distratta da tutte le variabili che ora mi pare di conoscere. E saprei che anche se Google tifa per “l’autostima” ciò che conta è invece sapere di essere degni di amore. Provare per sé amore e imparare a perdonarsi.

Stimare significa soppesare, confrontare, dare un valore rispetto ad altro. Fa pensare ad un mercante esperto che prende in mano la merce, sbrigativo e indagatore. La gira, la guarda da tutti i lati, la fa saltare su e giù e le assegna un prezzo.

Avere un’alta autostima costa una fatica tremenda e continua. E sentirsela minacciata da eventi o condizioni ritenute critiche ci espone ad uno stress prolungato e dannoso per il nostro corpo, la nostra mente e le persone che ci stanno attorno. Sovente, infatti, gli altri sono visti come minaccia o usati come schermo sul quale proiettare i nostri errori, così da scagionarci ed evitarci la sofferenza intensa dovuta ad un impietoso ricalcolo al ribasso del nostro valore in caso di defaillance.

Ancora una volta nelle pagine del Vangelo possiamo trovare lo sguardo che davvero ci fa sentire bene. Dentro il comando del Signore che dice «Ama il prossimo tuo come te stesso». Dice ama, non stima.

I più recenti e validi avanzamenti in ambito psicologico (vedi Baker e McNulty, 2011; Neff e Vonk 2009, citati da Emiliano Lambiase in Autostima e auto-compassione. Due modi diversi di relazionarsi con se stessi ) convalidano anche dal punto di vista teorico e clinico proprio questo sguardo. Non dobbiamo in realtà stupircene troppo, ma piuttosto essere grati di queste conferme all’antropologia cristiana guadagnate dall’intelligenza umana e dalla ricerca scientifica.

Alcuni studiosi stanno proponendo come costrutto alternativo verso il quale orientarsi per promuovere il benessere vero delle persone non più l’autostima ma piuttosto l’auto-compassione.

Che non è auto commiserazione. Né auto consolazione. Né auto assoluzione. Anzi! Se io provo per me e per le mie sofferenze e mancanze sincero dispiacere e comprensione non giudicante lascio che si apra in me uno spazio interiore per migliorarmi, con gentilezza e pazienza.

Mi guardo come essere degno. Non come allievo performante dell’accademia della vita! Questa delle performance misurabili e misurate in tutti gli ambiti è proprio una fissazione nostra, occidentale,… è una sorta di capitalismo intrapersonale, quindi terribile per la sua invadenza! Significa parlare a se stessi in questi termini: valgo solo perché rendo. E questo rendimento deve essermi riconosciuto anche da altri. Il mio rendimento deve essere alto, più alto di quello altrui. E durevole.

E poi ci stupiamo della diffusione metastatica dello stress?

Non potrebbe essere altrimenti, date queste condizioni.

Se mi amo e mi comprendo riconoscendomi in modo incondizionato la bellezza del mio esistere come persona, allora avrò la tranquillità e la dolcezza necessarie per guardare i miei difetti senza nasconderli, per parlarne senza dissimularli, per riconoscerli senza spostarli su altri. Perché non avrò paura di perdere punti!

Se mi guardo con sincera compassione mi sto sottraendo al più tirannico e onnipresente dei valutatori: io stesso. E allora, siccome valgo anche mentre sbaglio, posso tranquillamente guardare i miei limiti e liberare grandi quote di energie e capacità per provare in tutta onestà a migliorarmi.

Non è a questo che dovremmo orientare le nostre energie? E non sarebbe bello farlo come ascesi e non come compito assegnatoci da un life coach a pagamento?

Dovremmo farlo per noi. Non studiatamente, strategicamente sui figli per ottenere, come una prestazione ancora una volta, il loro prolungato stato di benessere!

Se ci occupiamo di noi, del bene che nella vita c’è, che la vita stessa è, allora i nostri figli vedranno, respireranno, assorbiranno questo sguardo. Nonostante le ferite che sì, pure noi amantissimi genitori, possiamo avere inflitto loro.

L’impegno che siamo chiamati a profondere nell’educazione dei nostri figli non viene meno in questo modo.

La fatica, tanta, è lì tutta da fare. Il rapporto drammatico delle nostre libertà tra di loro e della nostra personale con quella somma di Dio mantengono la loro tensione, non ci illudiamo.

Quello che dovrebbe davvero cambiare è il ritmo del nostro respiro. Perché attendiamo davvero al loro bene senza (troppa) ansia. Coltiviamo il loro desiderio di bene prendendo sul serio il nostro.

È tutto nostro, almeno inizialmente, il commovente privilegio di mostrare loro il volto del Salvatore, di parlargliene, di sperare tremanti e un  po’ in disparte, man mano che crescono,  che il Signore se li conquisti!

Volete che Lui, che li ama sempre, ininterrottamente, indefettibilmente, che sarebbe morto anche per il più scapestrato e per lui solo, non sappia trovare il modo di mostrarsi nelle pieghe della realtà? Di svelare anche a loro che Lui è? E che tutto il resto sono indizi?

Lasciamoli giocare. È una caccia al tesoro. Aiutiamoli a capire regole e campo da gioco. Aiutiamoli anche lasciandoli stare!

Capiranno che li amiamo dal fatto che continuiamo ad esserci e continuiamo a correre il rischio di essere loro antipatici perché diciamo di no a questo e a quello. E li costringiamo ad apparecchiare la tavola, non prima di essersi lavati le mani.

Proviamo almeno come esperimento (ne abbiamo accettati tanti seguendo inserti speciali, trasmissioni radiofoniche, parole all’esperto) a non occuparci affatto di aumentare la loro autostima. E sapete perché, in fondo, credo sia importante cambiare fronte e anche metafora (non siamo in guerra, ma in cammino con e come loro)?

Perché l’autostima è come una sorta di continua dialisi emotivo-affettiva. Procura un benessere intenso ma fragile.

L’auto-compassione, l’amore temperato, sincero, caldo per sé, invece, è sorgivo. Ha una polla interna, dentro il cuore di ognuno, nella quale zampilla un’acqua misteriosa e fresca. Ce l’ha messa Dio! Stiamo sicuri di questo. Al fondo, nel nostro intimo, laggiù nelle grotte segrete del nostro io si specchia quel Tu sorridente che ci porta una sola buona notizia: Io ti amo.



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