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Chesterton presenta la grande libertà della storia medioevale d’Inghilterra (e d’Europa)

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don Andrea Lonardo - Centro Culturale "Gli Scritti" - pubblicato il 30/04/17

Il ruolo dei monasteri e delle corporazioni (o gilde) nel medioevo in una nota di don Andrea Lonardo

La storiografia benpensante ripropone costantemente l’idea di un medioevo non libero, bensì soggiogato dalla Chiesa, dai suoi monasteri e dai suoi vescovi, mentre invece, a suo dire, la libertà sarebbe nata solo a partire dal ‘500 . Chesterton mostra, invece, in pochi tratti l’evidenza del contrario[1]. Con il re d’Inghilterra Enrico VIII cessò la libertà, perché la monarchia divenne di fatto assoluta, forte al punto da stravolgere ogni legge comune, capace di sovvertire anche l’istituto matrimoniale a piacimento del sovrano, con la dissoluzione dei monasteri[2] e dell’autonomia delle corporazioni dei laici, così come dell’autonomia delle città, promossa fino ad allora dai vescovi e dal popolo.

Il medioevo invece conobbe in un primo tempo la libertà dei monasteri nei quali l’elezione degli abati e delle badesse avveniva democraticamente, sia in quelli maschili che in quelli femminili:

«Questi folli che non avevano alcun interesse per i loro affari, divennero i veri affaristi dell’epoca. Il semplice sostantivo monaco ha un valore rivoluzionario perché significa allo stesso tempo solitudine e comunità o meglio socievolezza. Accadde che questa vita comunitaria divenne una sorta di riserva e rifugio per gli individui, un luogo aperto a tutti. Vedremo come questa funzione sarà svolta in seguito dalle terre comuni.

È difficile spiegare questi avvenimenti in tempi come i nostri dominati dall’individualismo. Nella vita privata la maggior parte di noi ha un’amica di famiglia che ci viene in aiuto dall’esterno come una magica madrina. Non è irrispettoso affermare che i frati e le suore rappresentassero per il genere umano una specie di santa lega di zii e zie. E persino un luogo comune affermare che essi facevano tutto ciò che nessun altro voleva fare.

Le abbazie hanno mantenuto la memoria del mondo, hanno affrontato le pestilenze, insegnato le prime arti tecniche, preservato la letteratura pagana e, soprattutto, grazie ad un infinito lavoro di carità, hanno contribuito a tenere i poveri lontani dalla disperazione nella quale vivono oggi. Noi riteniamo ancora necessario mantenere una riserva di filantropi, tuttavia siamo maggiormente affascinati da uomini che si sono arricchiti piuttosto che da uomini che hanno scelto la povertà. Inoltre, gli abati e le badesse erano elettivi.

A loro si deve il sistema rappresentativo sconosciuto all’antica democrazia, una idea che aveva in sé un valore quasi sacrale. Se potessimo guardare dall’esterno alle nostre stesse istituzioni, non potremmo fare a meno di vedere come l’immagine del migliaio d’uomini trasformatisi in un solo uomo che procede verso Westminster non rappresenti solo un atto di fede ma anche una favola. La migliore e più autentica storia dell’Inghilterra anglosassone è quasi interamente la storia dei suoi monasteri. Miglio dopo miglio ed addirittura uomo dopo uomo, essi educarono ed arricchirono la nostra terra»[3].

Alla stagione dei monasteri seguì quella delle città (ed in Italia dei comuni). Nella civitas medioevale fondamentale fu l’istituzione delle corporazioni – in Inghilterra Gilde – che vedevano riuniti in un sindacato ante litteram, ma molto più vivo, libero e presente, tutti coloro che esercitavano lo stesso mestiere. Tali corporazioni libere ebbero un ruolo decisivo nella gestione delle professioni e dell’intera città. Tale ruolo permette di comprendere quanto fosse allora libero l’associazionismo e il protagonismo conseguente:

«Vi è qualcosa di singolarmente dimenticato nella parola moderna Mister. Anche nel suono vi è un che d’affettato che sottolinea l’avvizzirsi di questa parola rispetto a quella più altisonante da cui proviene. Né, a dire il vero, vi è nel suono qualcosa di stonato. Ricordo un racconto tedesco su Sansone nel quale al personaggio era dato il nome meno pretenzioso di Simpson che agli occhi dell’autore lo rendeva più presentabile. È la stessa triste diminutio chevi è nel passaggio da Master a Mister.

La grande importanza della parola Master è tutta qui. Una Gilda era, mi si passi lo schematismo, un’associazione nella quale ognuno era proprietario di se stesso. Nessuno poteva lavorare a meno che non aderisse alla lega e non ne accettasse le regole; ognuno lavorava nel suo negozio con i suoi strumenti ed il suo guadagno non lo doveva dividere.

Dare alla parola Master il moderno significato di datore di lavoro è assolutamente inesatto. Master identificava qualcosa di diverso e più importante del boss. Significava essere padroni del proprio lavoro, mentre oggi significa soltanto avere alle proprie dipendenze dei lavoratori. È una fondamentale caratteristica del capitalismo il fatto che il proprietario di una barca possa non conoscere la distinzione tra poppa e prua o che un proprietario terriero non abbia mai visto le sue terre o che il proprietario di una miniera d’oro non si interessi altro che di vecchi oggetti di peltro o che il proprietario di una compagnia ferroviaria viaggi esclusivamente in pallone aerostatico. Può essere che un capitalista abbia maggiore successo se vive gli affari come un hobby o se ha la sensibilità di farli gestire ad un manager; dal punto di vista economico, però, può avere il controllo dei suoi affari perché è un capitalista e non perché ha un qualche hobby o una qualche sensibilità.

Il grado più alto nel sistema delle Gilda era quello di Master e si riferiva alla direzione degli affari. Riprendendo il tema utilizzato nei colleges nella stessa epoca, tutti i capi erano Maestri d’Arte. Gli altri gradi erano operaio ed apprendista ma, come i corrispondenti gradi universitari, erano gradi che chiunque poteva ottenere. Erano altra cosa rispetto alle classi sociali, erano gradi, non caste.

Un apprendista avrebbe potuto sposare la figlia del suo padrone. Il padrone non si sarebbe stupito della cosa, al contrario dell’indignazione aristocratica che, in seguito, avrebbe gonfiato il petto di un milord se sua figlia avesse sposato un borghese. Passando dal ristretto ordinamento gerarchico all’ideale egualitario, vediamo che ciò che ne rimane oggi è talmente distorto da apparire comico. Ci sono compagnie cittadine che hanno ereditato dalle Gilda solo gli scudi araldici, le immense ricchezze e niente altro. Se in esse vi è qualcosa di buono, non è il buono che vi era nelle Gilda.

Come nel caso dell’Onorevole Compagnia dei Muratori nella quale, non c’è bisogno di dirlo, non si trova neanche un muratore o nessuno che abbia mai conosciuto un muratore, ma alcuni soci anziani di poche grandi imprese della city, insieme ad alcuni militari appassionati di gastronomia che, conversando tra di loro dopo cena dicono che la più grande gloria della loro vita è stata l’aver costruito mattoni finti senza utilizzare la paglia.

Oppure potremmo citare l’Onorata Compagnia degli Imbianchini che ha conservato la sua denominazione, nel senso che molti suoi componenti danno lavoro ad un gran numero d’imbianchini. Queste organizzazioni aiutano molti istituti di carità e spesso si tratta d’aiuti ingenti, ma con una funzione completamente diversa da quella delle vecchie organizzazioni di carità delle Gilda.

La carità delle Gilda era qualcosa di molto simile alle terre comuni. Aveva lo scopo di opporsi all’ineguaglianza o, come probabilmente l’avrebbe vista qualche vecchio e serio gentiluomo della passata generazione, di opporsi al cambiamento. Si operava non solo per la sopravvivenza del mestiere ma per quella di ogni lavoratore. Ciò faceva sì che ogni muratore fosse assistito e che ogni imbianchino bisognoso d’aiuto avesse un nuovo camice bianco. Loro scopo principale era di soccorrere i ciabattini, come questi ultimi facevano con le loro scarpe, e di occuparsi anche dell’ultima pecora del gregge.

In sostanza, difendevano un piccolo negozio come se stessero combattendo una guerra. Si opponevano alla nascita di grandi negozi come si sarebbero opposti ad un mostro. Ora, invece, neanche gli imbianchini della Compagnia degli Imbianchini,pensano che essa debba adoperarsi per prevenire la morte dei piccoli negozi a vantaggio dei grandi, né che in passato l’abbia mai fatto. Nel migliore dei casi, all’imbianchino sull’orlo del fallimento direbbe che si tratta di una compensazione e non farebbe nulla per restituirgli lo status che nel nuovo sistema industriale ha ormai perso. Le compagnie sono tanto attente ai simboli per quanto sono disinteressate agli individui anche se poi la filosofia moderna ha distrutto il simbolo.

Le vecchie Gilda, secondo i loro fini egualitari, imponevano categoricamente lo stesso salario e lo stesso trattamento per tutti, cosa cui i sindacati d’oggi dovrebbero guardare con rimpianto. Ma esse insistevano anche, mentre i sindacati non lo possono fare, sull’alto livello dell’esecuzione, come possiamo ammirare ancora oggi nei resti dei loro edifici e nei colori delle vetrate ormai quasi completamente distrutte.

Non vi è artista o critico, per quanto il suo stile sia distante da quello del gotico, che non ammetta che in quest’epoca vi era un indefinibile ma universale gusto artistico volto a rendere il senso più autentico della realtà. Quelli che noi vediamo sono soltanto gli oggetti di minor pregio fra sedie, pentole, vasi, tegami. Hanno tutti forme suggestive che sembra li abbiano posseduti dei folletti e non degli esseri umani. Sembrano, in confronto alle epoche successive, creati in un paese delle fate dove regnava la libertà.

Che i sindacati, la più medievale fra le istituzioni moderne, non combattano per il medesimo ideale estetico è vero e senza dubbio tragico; tuttavia, farne un motivo di condanna significa non capirne la tragedia. I sindacati sono confederazioni d’individui che non sono proprietari di beni e che cercano di rimediarvi unendosi e contando sul carattere necessario della loro opera.

Le Gilda erano confederazioni d’individui proprietari aventi lo scopo di garantire ad ognuno il mantenimento della sua proprietà. È questo naturalmente il solo stato di cose nel quale si può affermare che la proprietà esiste realmente. […] Per comunità di proprietari si intende una comunità nella quale la maggior parte delle persone hanno proprietà, il che esclude che si possa trattare di una comunità nella quale ci sono solo pochi capitalisti.

Gli appartenenti alle Gilda (il discorso vale anche per i servi, i semi servi ed i contadini) erano molto più ricchi di quanto si possa dedurre dal fatto che le Gilda tutelavano le proprietà delle case, degli attrezzi e dei salari. La presenza di surplus è evidente se si guarda agli studi sui prezzi in quel periodo, tenendo naturalmente in conto tutte le differenze con l’attuale prezzo della moneta. Quando si può comprare un uovo o una birra con pochi soldi, non ha evidentemente importanza il nome della moneta. Anche nei casi in cui la ricchezza individuale poteva essere severamente ridotta, la ricchezza collettiva era cospicua, perché comprendeva i beni delle Gilda, delle parrocchie e, soprattutto, dei monasteri. È un elemento molto importante da tenere presente nelle successive fasi della storia inglese.

L’altro fatto è che il governo locale si sviluppò, in seguito alle condizioni che si erano venute a creare, unitamente al sistema delle Gilda che era invece indipendente da quest’ultimo. Nel descrivere quella lontana società, non posso essere certamente sospettato di rappresentare un paradiso o di voler dimostrare che le fossero estranei gli errori, le lotte, i dolori che coinvolgono la vita umana in tutte le epoche e, certamente non ultima, la nostra. L’affermazione delle Gilda fu accompagnata da un incremento dei conflitti e delle sommosse; per un certo periodo di tempo vi fu una forte rivalità fra le Gilda dei mercanti che vendevano i prodotti e quelle degli artigiani, un conflitto che alla lunga vide prevalere questi ultimi.

Ma, al di là di quale fosse la parte vincente, era il vertice delle Gilda a fornire gli uomini che avrebbero diretto la comunità e non viceversa. Anacronistici residui d’istituzioni un tempo sorte spontaneamente possono essere individuati nell’odierno, anomalo statuto del Lord Major e delle Associazioni londinesi d’Arti e Mestieri. Spesso ci è detto che la società dei nostri padri era governata mediante le armi; in realtà non è inutile ricordare che il vero elemento grazie al quale era regolata la vita nei suoi aspetti più quotidiani, era l’utensile con cui si lavorava.

Si trattava, insomma, di una forma di governo che aveva il suo scettro negli strumenti di lavoro. Blake[4] definisce metaforicamente l’Età dell’Oro il periodo in cui l’oro ed i diamanti sono tolti dall’elsa della spada per essere posti sui manici degli aratri. Qualcosa di simile accadde in questo interludio di democrazia medievale che fermentava sotto la crosta del potere aristocratico e monarchico; un periodo in cui i miglioramenti nel campo della produzione assunsero la pompa dell’araldica.

Le Gilda sovente esibivano degli emblemi ostentanti in modo tanto evidente le prosaiche attività cui si riferivano, che l’unica immagine adatta cui accostarle ci sembra essere quella di tabarde cavalleresche o paramenti religiosi indossati sopra pantaloni di velluto da sterratore o di bottoni di perla comprati da un venditore ambulante.

Altri due punti devono essere rapidamente aggiunti, così il ritratto di questo periodo che a noi appare tanto lontano ed irreale sarà compiuto, almeno nei limiti in cui può essere fatto in questa sede. Entrambi si riferiscono ai legami tra popolo e politica cui solitamente è fatta risalire la totalità degli avvenimenti storici.

Il primo e per quei tempi il più importante, è la Carta. Ricorrendo ancora una volta ad un parallelo con i sindacati, che è d’aiuto per il lettore contemporaneo, la Carta di una Gilda corrisponde approssimativamente a quel riconoscimento per il quale lottarono invano i sindacati dei ferrovieri e d’altre categorie alcuni anni or sono.

Grazie alle Carte essi assumevano l’autorità del Re e del potere centrale o nazionale; e ciò ci dimostra il grande valore morale del Medioevo che ha sempre concepito la libertà come un valore positivo e non come una negativa fuga dalla società; essi erano lontanissimi dall’identificare, come il moderno romanticismo, libertà e solitudine. La loro visione è compendiata dalla frase secondo la quale si concedeva a qualcuno la libertà cittadina; il che stava ad indicare che non avevano alcun interesse per la libertà di cui si poteva godere, poniamo, in un deserto.

Affermare che le Gilda erano legittimate anche dall’autorità della Chiesa significherebbe operare un ridimensionamento della realtà, poiché la religione pervadeva tutti gli aspetti della vita popolare del tempo, almeno fino a quando essa rimase tale. Molte società commerciali hanno avuto un santo protettore molto prima di avere il sigillo reale.

Il secondo punto da sottolineare è che queste organizzazioni municipali già allora sceglievano gli uomini che le avrebbero guidate nell’ultima e più importante esperienza del Medioevo: il parlamento. A scuola ci è stato sempre detto che quando Simone di Monfort e Edoardo I convocarono per la prima volta i Comuni, principalmente per ascoltare il loro parere sulla tassazione locale, chiamarono due borghesi per ogni villaggio.

Se avessimo prestato maggiore attenzione a queste due semplici parole ci si sarebbe svelato il segreto della lontana società medievale. Ci saremmo solo chiesti che cosa fossero i borghesi e se essi crescessero sugli alberi. Avremmo immediatamente scoperto che l’Inghilterra era piena di piccole assemblee che andavano a formare il grande parlamento. E se è difficile credere che la grande assemblea (ancora oggi arcaicamente chiamata con la sua vecchia denominazione di Camera dei Comuni) sia la sola fra le corporazioni popolari o elettive di cui abbiamo avuto notizia nei libri di storia, la conclusione che ne dobbiamo trarre temo sia semplice ed anche un po’ triste. Ciò è avvenuto perché il parlamento, fra le creature del Medioevo, fu quella che tradì ed uccise tutte le altre»[5].

Note al testo

[1] Tutto il volume G.K. Chesterton, Una breve storia d’Inghilterra, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2003, è prezioso in proposto, anche se la sua traduzione in italiano non è scorrevole.

[2] Cfr. su questo I primi anni della riforma anglicana ed i cattolici inglesi da Enrico VIII ad Elisabetta I, di Andrea Lonardo e 1/ John Knox, il riformatore protestante della Scozia che distrusse tutte le cattedrali e le abbazie scozzesi 2/ L’oblio di tale storia nei Musei, nei libri scientifici e nelle Guide turistiche della Scozia 3/ Enrico VIII e le prime distruzioni di abbazie in Scozia, quindici anni prima delle devastazioni di John Knox 4/ Alcuni punti problematici della Riforma protestante di John Knox. Appunti di Andrea Lonardo.

[3] G.K. Chesterton, Una breve storia d’Inghilterra, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2003, p. 32.

[4]William Blake (1757-1827). Poeta inglese sostenitore della rivoluzione francese e delle idee di Thomas Paine sull’abolizione degli elementi ereditari nella costituzione inglese.

[5] G.K. Chesterton, Una breve storia d’Inghilterra, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2003, pp. 70-75.

QUI L’ORIGINALE

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