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Fare la mamma è davvero il mestiere più duro del mondo?

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Flickr.com/ Lionel Tinchant

Paola Belletti - Aleteia - pubblicato il 19/04/17

Dal video si direbbe proprio di sì...

L’avete guardato? Che ne pensate? Alla domanda del titolo a questo punto non possiamo che rispondere : “Sì. Senza dubbio”.

Se solo si trattasse di un lavoro.

Era già presente questa espressione – la mamma è il mestiere più difficile!- nel linguaggio popolare, ma forse allora aveva un altro senso, non lo so. Adesso è diverso. Trovo gli accenti più esasperati. È l’idea stessa del lavoro a cui si riferisce ad essere a sua volta mutata.

Ora, soprattutto in rete, circolano vere e proprie campagne di ringraziamento per le madri che, con esilaranti stratagemmi e sequenze di immagini e musica che non possono che commuoverci, mostrano quanto sia impegnativo e arduo fare la mamma.

Fare tutte quelle cose, eseguire quell’elenco senza fondo di incombenze, reagire con prontezza alle caleidoscopiche richieste dei figli, mettendo in campo le più svariate abilità da problem solver e decision maker, saper organizzare giochi-pranzi-cene mentre si consolano pianti e si placato liti. E tutto con la stessa efficacia…

Insomma, oltre al senso di stupore e gratitudine che si accompagna a simili prodotti multimediali, il concetto che passa o che si vuole che passi è che “fare la mamma” dovrebbe fare curriculum.

E perché mai?




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Io sono perfettamente d’accordo sul fatto che l’impegno psicologico, fisico e direi anche spirituale richiesto alle donne che diventano madri sia intensissimoe che abbia davvero ricadute in termini di capacità misurabili e addirittura monetizzabili. Ma perché dovrebbe così tanto interessarci  misurarle e ancor peggio monetizzarle?

Un lungo spot spagnolo, promosso tra l’altro dalla realtà delle famiglie numerose spagnole, dice, con accenti da avvenuto riscatto sociale e dopo che ha seguito impotente l’epopea di una donna che cerca di rientrare nel mercato del lavoro: “La maternità è un master!”.

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Solo?

È davvero tutto qui?

Non corriamo invece il rischio di illuderci di promuovere il nostro valore mentre lo stiamo svilendo? Non abbiamo forse accettato uno scambio di valute del tutto svantaggioso?

Lo spot è bello, realistico, commovente e ha intenti nobili. Credo che possa davvero contribuire ad aumentare la consapevolezza diffusa del carico spesso nascosto che le donne portano, quasi sempre volentieri, ogni santo giorno;  anche in questo caso il video pizzica corde che suonano profonde e a lungo.

Ma è ingiusto. O almeno parziale. E siamo, temo, a volte inconsapevoli complici di questa riduzione. La maternità fa parte di quelle cose indisponibili che non dovremmo far nemmeno toccare ai mercati e ai mercanti.

Nemmeno in una similitudine. Neppure a scopo esplicativo o motivazionale.




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Davvero, non è per mitizzare o idealizzare.

Così facendo rischiamo di accettare il gioco della valutazione. Della misurazione. Della spendibilità. O di tutte queste cose, ma appiattite sul concetto di produttività.

Inseguite da tempi immemori da uno specifico senso di colpa circa la nostra utilità,  o forse è vizio cresciuto rapido negli acquitrini moderni, noi donne o parte di noi abbiamo accettato il gioco del mercato e assunto le sue regole. Lo abbiamo più probabilmente subito. Ce lo siamo trovato già impostato così, come allegato indiscutibile di un’epoca di lotta che ha ottenuto emancipazione. Non possiamo essere ingrate!

E così l’oggetto in questione, la maternità e il suo valore, è stato rimpicciolito per certi versi, deformato per altri, forzato in ogni caso a rientrare in una cornice che non ne rispetta altezza, larghezza e profondità.

Probabilmente è un azzardo, e mi scuso dell’accostamento che risulterà stridente; ma almeno dal punto di vista concettuale temo che la propaggine per ora più lontana dell’aver reso la maternità un mestiere, una professione è quello di averla trasformata in una prestazione vera e propria. Quella cosa aberrante coperta da vigliacche sigle come GPA o termini speciali come Surrogacy.

La scrittrice Susanna Tamaro diceva nel suo intenso discorso a difesa della maternità e contro la sua mercificazione che “La gestazione per altri è dunque soltanto la punta di un iceberg – la più vistosa e la più agghiacciante – di uno slittamento della visione antropologica verso un modello ad un’unica dimensione, quella del mercato.”




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Non capita anche a voi, donne, mamme oppure no, di sentire una sorta di irritazione, sia per la esaltazione pregiudiziale della figura materna, idealizzata e posta in alto, ma per lasciarla lì a prendere polvere, sia per l’ostentato, a volte rabbioso rifiuto dei connotati tipici, per quanto declinati sempre alla prima persona singolare, della donna come moglie e mamma?

Rintraccio nella mia realtà quotidiana e nelle atmosfere suggerite dai media, alternativamente, espressioni inadeguate sia nel senso di mostrare quanto poco la maternità ci abbia cambiate, sia nello sventolare in faccia al mondo, brutto e cattivo, quanto ci abbia cambiate e migliorate la gravidanza e la nascita di un figlio, come avessimo assunto con la gestazione e  il parto uno stato di superiorità calato dall’alto e senza il nostro contributo.

Non lo so, mi pare che siamo smarrite, a volte. Provo tenerezza per noi, donne. Per me alle prime armi, con la prima bimba (avuta comunque a quasi 30 anni e non a 19)… se penso alle aspettative che nutrivo ingenuamente e che la realtà si è premurata di infrangere senza pietà.

Mi immaginavo a seguire paziente e sollecita la crescita dei miei figli e lucidamente impegnata nella carriera che avevo iniziato a costruire con gli studi. Invece mi sono trovata a tornare al lavoro a soli 3 mesi e mezzo dal parto, a piangere spesso e dormire di rado. A sentirmi io inadeguata per non riuscire a far quadrare tutto.

Ho intravisto in una manifestazione femminista legata all’8 marzo di quest’anno, 2017,  che le donne che sentivano di rappresentarci – senza il consenso di molte, peraltro!-esprimevano il loro fermo rifiuto per il corpo concepito come destino…

Novelli Titani. Destinati a crollare con fragore. Non tutto il destino è scritto nel corpo, ma anche. Non solo il corpo costruisce la nostra identità, ma anche quello. E non è una cosa. Siamo noi.

Mi rendo conto che sto attraversando come un disertore che lascia i ranghi e calpesta colture e giardini per la fretta, ma non posso fare a meno di andare di corsa alla Scrittura. Per me è stata una scoperta.. Per la prima volta ho visto una cosa in un passo genesiaco che mai avevo notato.

Ho imparato da altri ad aguzzare la vista e a rallentare le conclusioni.  Ad accogliere i versetti in tutta la loro essenzialità sapendo che se un dettaglio viene riportato è proprio decisivo. Come il riferimento alle doglie del parto, ad esempio..

Ma non volevo dire quello.

Volevo dire che nel capitolo 2 del Genesi si dice che prima Dio plasma l’uomo con la polvere del suolo e poi soffia l’alito di vita. Il corpo ci precede… Ci fonda.

«Allora il Signore Dio plasmò  l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente». (Genesi, 2,7)

Leggevo anche, di recente, il prezioso volume che raccoglie i pensieri di Benedetto XVI sulla donna, edito dalla Libreria Editrice Vaticana. Al numero 34 dice:

«La donna: suo impegno primario nella famiglia. Alle donne [rendo] omaggio per il servizio che tante di loro offrono alla fede, alla dignità umana, alla vita, alla famiglia. Ho ribadito il loro pieno diritto ad impegnarsi nella vita pubblica, tuttavia senza che venga mortificato il loro ruolo nella famiglia: missione, questa, fondamentale da svolgere sempre in responsabile condivisione con tutti gli altri elementi della società e soprattutto con i mariti e padri». (Catechesi, 1.IV.09)



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Ricordo di un questionario (in rete se ne trovano diversi. Basta mettere come chiave di ricerca questionario sulle discriminazioni di genere o sugli stereotipi di genere o sulla parità di genere…) somministrato a studenti delle scuole medie durante l’ultimo anno scolastico contro stereotipi e discriminazione di genere in cui si chiedeva loro se fossero contenti di avere la mamma a casa – come una minus habens, sembrava detto tra le righe – a pulire, cucinare e altre mansioni simili connotate negativamente o se avrebbero invece preferito vederla realizzata lavorando fuori casa.

Magari a fare la donna delle pulizie in casa d’altri? O la babysitter per figli non suoi? (Non tutte abbiamo il problema di dover conciliare il lavoro da AD di aziende quotate in borsa e la gestione familiare)

O quello spetta solo a donne di serie B? Allora, mi chiedo, in questo trenino dell’amore negato, ciò che conta è fare le cose per altri e a pagamento?

Il lavoro delle donne serve alla società, eccome! Ma davvero possiamo farlo solo a scapito del nostro essere?

A volte vergognandoci o, all’estremo opposto, esaltando in modo ipertrofico e abbastanza irritante il “fare la mamma e la moglie” come fosse a sua volta una professione? (extrema se tangunt).

Va bene era una scusa per rimandare alcune incombenze poco apprezzate dalla società che conta. Tipo rifare i letti. Che invece, lo so, possono contribuire a migliorare il mondo.

Almeno i pochi metri quadrati a me spettanti.

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