Riflettere sul caso emblematico (e doloroso) di Stéphane Mercier. Spesso noi cattolici siamo specialisti nel quadro de “la montagna che partorisce il topolino”; ai nostri contraddittori consentiamo invece di essere talvolta “topolini che partoriscono montagne”La surreale vicenda del giovane accademico belga Stéphane Mercier, che in due settimane è passato dalla titolarità di due corsi nell’Università Cattolica di Lovanio alla rimozione dall’incarico, costituisce certamente un caso spinoso che interroga a fondo il mondo cattolico.
Ricapitolando in estrema sintesi: verso la metà di marzo Mercier ha tenuto nel suo corso di filosofia una lezione in cui trattava la questione dell’aborto dal punto di vista etico. Al termine della lezione ha distribuito dei materiali ad uso degli studenti. Vi si trova scritto, fra l’altro:
“IVG” è un eufemismo che dissimula una menzogna: la verità è che l’aborto è l’omicidio di una persona innocente. Ed è anche un omicidio particolarmente abbietto, perché l’innocente in questione è indifeso. Già l’omicidio di un innocente capace di difendersi è un’azione rivoltante; ma prendersela con qualcuno che non ha la forza o i mezzi per difendersi è ancora più ignobile.
Alcune tra le studentesse hanno “usato” le dispense per denunciare il professore: prima a un’associazione femminista (Synergie Wallonie) e poi, tramite questa, all’università stessa. La risposta dell’ateneo è stata sorprendente per goffaggine, dilettantismo e contraddittorietà: oscillava infatti tra l’improvvida affermazione del “diritto all’aborto” (diritto che, a rigor di termini, non esiste, in Belgio come in Italia) e la maldestra cancellazione dei comunicati, che venivano via via sostituiti (ma che permanevano accessibili nella cache di Google, e quindi reperibili).
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Nei giorni successivi, l’Ateneo ha mandato Michel Dupuis a rappresentare una versione socialmente accettabile dell’università nella trasmissione Le forum della radio belga La Première: l’ospite principale era Sylvie Lausberg, portavoce della piattaforma “Abortion Right” – il tema: “Bisogna togliere l’IVG dal codice penale belga?”.
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E ancora fino a ieri mattina la questione etica a cui l’università pubblicizzava di star dedicando le sue energie, era: “È possibile (e augurabile) che l’insegnante sia neutrale, di fronte al proprio uditorio?”.
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Ma tralasciamo adesso i tweet e l’inevitabile contrapposizione tra le varie partigianerie. Per un resoconto puntuale e dettagliato delle fasi della quérelle rimandiamo volentieri a chi si è preso la briga di resocontarle con ordine e precisione. Qui vorremmo soffermarci sull’aspetto più problematico della crisi culturale del mondo cattolico nei nostri Paesi secolarizzati: non solo perché – come pure è stato giustamente scritto – se le condizioni dell’insegnamento nell’Università Cattolica di Lovanio sono queste, neanche a Papa Francesco verrebbe permesso di insegnarvi; ma perché investono a fondo la consapevolezza che i cattolici hanno dei contenuti della propria fede e la qualità dei rapporti tra le loro istituzioni culturali e il mondo circostante.
Che vuol dire?
Molto semplicemente, che alle volte i cattolici vivono un incomprensibile complesso di subalternità culturale, di fronte al “mondo”, per il quale non osano neppure indagare le ragioni che sostengono i loro precetti di fede… figuriamoci protestarle di fronte a un contesto contraddittorio (o perfino ostile). Sembrerebbe una tragedia, se invece non avesse qua e là sfumature quasi comiche: quando guardiamo infatti al semplice indice di “vitalità social” dei gruppi che, come Synergie Wallonie, impersonano il “mondo”, viene da sorridere. Spesso noi cattolici siamo specialisti nel quadro de “la montagna che partorisce il topolino”; ai nostri contraddittori consentiamo invece di essere talvolta “topolini che partoriscono montagne”.
Ma non si tratta di meri rapporti di forza: il problema è fondamentalmente di identità. Giustamente la Conferenza episcopale belga ha rilasciato un comunicato, nei giorni scorsi, che da una parte ribadiva come l’ordinamento giuridico nazionale non contempli affatto un “diritto all’aborto” e dall’altra ricordava che la dottrina cattolica tiene sempre salda la distinzione tra persona e atto, e che quindi mentre condanna paternamente gli atti ha sempre atteggiamenti materni nei confronti delle persone.
Ma niente di diverso ha fatto Stéphane Mercier, almeno a quanto risulta dai testi resi pubblici per lo zelo delatorio delle studentesse… Se anche gli si volesse rimproverare in quelle frasi un’aggettivazione troppo colorita e viscerale (cui sta comunque sotteso un grido di dolore, che per sua natura non può essere composto), l’interdizione dall’insegnamento pare davvero una misura disciplinarmente sproporzionata, eticamente ingiusta e politicamente imprudente.
Può essere utile alla riflessione, allora, il riportare una manciata di canoni del Codice di Diritto canonico (1983), quelli che disciplinano gli statuti delle università cattoliche e la relativa cura pastorale della Chiesa:
Can. 808 – Nessuna università di studi, benché effettivamente cattolica, porti il titolo ossia il nome di università cattolica, se non per consenso della competente autorità ecclesiastica.
Can. 809 – Le Conferenze Episcopali curino che ci siano, se possibile e conveniente, università di studi o almeno facoltà, distribuite in modo appropriato nel loro territorio, nelle quali le diverse discipline, salvaguardata senza dubbio la loro autonomia scientifica, siano studiate e insegnate, tenuto conto della dottrina cattolica.
Can. 810 – §1. È dovere dell’autorità competente secondo gli statuti provvedere che nelle università cattoliche siano nominati docenti i quali, oltre che per l’idoneità scientifica e pedagogica, eccellano per integrità di dottrina e per probità di vita, e che, mancando tali requisiti, osservato il modo di procedere definito dagli statuti, siano rimossi dall’incarico.
– §2. Le Conferenze Episcopali e i Vescovi diocesani interessati hanno il dovere e il diritto di vigilare, che nelle medesime università siano osservati fedelmente i principi della dottrina cattolica.
E non è certo il caso di procedere a una canonizzazione mediatica (per acclamazione, poi!) di Stéphane Mercier, ma se risulta l’impressione che nel suo caso proprio la fedeltà alla dottrina cattolica – peraltro esposta coerentemente con la disciplina insegnata – sia la causa della rimozione dall’incarico, è forse lecito avanzare l’ipotesi che qualcosa, da qualche parte, non sia andato per il verso giusto.
L’impressione è confermata, in ultima analisi, dal comunicato che rende noto il provvedimento disciplinare, il quale è stato preso, a quanto si legge, per tutelare la libertà di ricerca accademica e d’insegnamento:
La libertà accademica è alla base della missione dell’università. L’UCL ha preso le distanze dalle posizioni del Prof. Mercier e tiene a ricordare il suo profondo attaccamento al ruolo dell’università come animatrice di dibattiti e di scambi, compresi quelli su questioni controverse. Questo ruolo, essenziale per la formazione di cittadini critici e responsabili, non può esercitarsi pienamente senza garantire la manifestazione serena e rispettosa di differenti punti di vista e in una cornice fondata sul rigore scientifico. È in questo spirito che l’università ha esaminato i reclami che le sono stati rivolti.
Sembrano tutte surreali fake news, mentre possiamo essere fin troppo certi che le cose stiano davvero così. Del resto, è perlomeno dai tempi di Giovanni Paolo II che l’Università di Lovanio si è segnalata per un’irrequieta intemperanza al magistero ecclesiastico (memorabile la contrapposizione mentre di discuteva pubblicamente della ricerca sulle cellule staminali embrionali).
Introducendo la sua storica enciclica sul Vangelo della vita, il Papa polacco scriveva infatti di “delitti” che venivano chiamati “diritti”:
Purtroppo, questo inquietante panorama, lungi dal restringersi, si va piuttosto dilatando: con le nuove prospettive aperte dal progresso scientifico e tecnologico nascono nuove forme di attentati alla dignità dell’essere umano, mentre si delinea e consolida una nuova situazione culturale, che dà ai delitti contro la vita un aspetto inedito e — se possibile — ancora più iniquo suscitando ulteriori gravi preoccupazioni: larghi strati dell’opinione pubblica giustificano alcuni delitti contro la vita in nome dei diritti della libertà individuale e, su tale presupposto, ne pretendono non solo l’impunità, ma persino l’autorizzazione da parte dello Stato, al fine di praticarli in assoluta libertà ed anzi con l’intervento gratuito delle strutture sanitarie.
(Evangelium Vitæ, 4)
Era il 1995. E più avanti il Papa richiamava gli intellettuali in genere, le università in specie, quelle cattoliche in particolare al dovere di collaborare alla costruzione di una nuova cultura della vita umana.
Anche gli intellettuali possono fare molto per costruire una nuova cultura della vita umana. Un compito particolare spetta agli intellettuali cattolici, chiamati a rendersi attivamente presenti nelle sedi privilegiate dell’elaborazione culturale, nel mondo della scuola e delle università, negli ambienti della ricerca scientifica e tecnica, nei luoghi della creazione artistica e della riflessione umanistica. Alimentando il loro genio e la loro azione alle chiare linfe del Vangelo, si devono impegnare a servizio di una nuova cultura della vita con la produzione di contributi seri, documentati e capaci di imporsi per i loro pregi al rispetto e all’interesse di tutti. Proprio in questa prospettiva ho istituito la Pontificia Accademia per la Vita con il compito di «studiare, informare e formare circa i principali problemi di biomedicina e di diritto, relativi alla promozione e alla difesa della vita, soprattutto nel diretto rapporto che essi hanno con la morale cristiana e le direttive del magistero della Chiesa». Uno specifico apporto dovrà venire anche dalle Università, in particolare da quelle cattoliche, e dai Centri, Istituti e Comitati di bioetica.
(Ivi, 98)
Cosa che appare quanto mai urgente, anche alla luce di casi come quello di Mercier, che interrogano a fondo la Chiesa suggerendole un serio esame di coscienza: siamo (ancora) capaci di «rendere ragione della speranza che abita in noi» (cf. 1Pt 3,15)?