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La forma del calice

Pisside

© Jeffrey Bruno/ALETEIA

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don Fabio Bartoli - La Fontana del Villaggio - pubblicato il 31/03/17

Tra arte e teologia

Si sa che Internet esalta il dilettantismo, nel senso che molti si sentono autorizzati a scrivere su qualunque argomento senza sentire il bisogno di essere particolarmente titolati a farlo. Ho pensato quindi che non sarà un grande male se anche io mi proverò a fare la mia brava figura di dilettante, con una incursione in un campo che decisamente mi appartiene poco, quello della storia dell’arte.

In realtà mi piacerebbe saperne di più, non da poco vagheggio l’idea di una storia dell’arte in prospettiva spirituale, provandomi a cogliere i legami tra la storia dell’arte e quella della spiritualità. Ho il timore che un progetto simile sarebbe largamente al di sopra delle mie forze, ma questo non mi vieta di tentare qualche incursione qua e là. Recentemente mi sono imbattuto in una domanda che alla fin fine mi ha condotto ad una serie di riflessioni che forse possono interessare anche qualcun altro e quindi ve la ripropongo.

La domanda è questa: “Perché i calici eucaristici sono fatti così?” E per conseguenza: “C’è un nesso tra l’evoluzione della forma del calice e quella della spiritualità sacerdotale?”.

Partiamo dall’inizio. Normalmente i calici sono composti di tre elementi: una base che si eleva verso l’alto, un coppa, che è quella in cui si versa il vino, sostenuta dalla base e un anello, o un nodo, come elemento di congiunzione tra la base e la coppa.

Non credo che sia azzardato leggere nelle tre parti una precisa simbologia: la base rappresenta l’elemento terrestre, la solidità, la stabilità, la carne; la coppa invece è propriamente il luogo dove si versa il vino, è il luogo del miracolo, rappresenta quindi la Grazia, il cielo, lo spirito, il trascendente; più importante di tutti è il terzo elemento che li congiunge: come un nodo che lega indissolubilmente il cielo alla terra, che rappresenta quindi l’Incarnazione, o addirittura, quando è in forma di anello, un anello nuziale, un matrimonio come quello annunciato nel libro dell’Apocalisse e raffigurato sacramentalmente nel Matrimonio.

Se la mia interpretazione simbolica è corretta, mi sono detto, dovrebbe essere possibile riscontrare nell’evoluzione della forma del calice lo stesso percorso seguito dalla teologia del sacerdozio e così ho fatto una piccola ricerca e mi sono documentato (non molto, lo ammetto, mi sono servito soprattutto di wikipedia) sulle diverse forme assunte dai calici nella storia.

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Il primo in cui mi sono imbattuto è il cosiddetto calice del diacono Orso, custodito nel museo diocesano di Feltre. Uno dei più antichi che abbiamo qui in Italia.

Questo calice risale al IV secolo ed è stato disegnato da un artista anonimo, mi colpisce innanzitutto per la sproporzione tra le parti: la coppa sembra enorme rispetto alla base, che quasi scompare: una coppa così grande mi parla di una eccedenza della Grazia sulla natura: nella teologia del sacerdozio conta molto di più l’elemento divino di quello umano, in primo piano c’è il miracolo eucaristico, che ha molta più importanza della Chiesa su cui pure si appoggia. Le enormi dimensioni della coppa parlano di una Eucaristia che è percepita come un evento essenzialmente comunitario, ma nonostante l’ampiezza della coppa si nota un certo slancio verticale dell’insieme, che però, data la sproporzione tra la coppa e la base, risulta più discendente che ascendente, come se fosse la coppa a discendere sulla base e non questa ad elevarsi verso quella, come fosse cioè il cielo che discende sulla terra e non la terra ad elevarsi al cielo. L’anello di congiunzione infine, sebbene disadorno ed essenziale, rimane un elemento fondamentale che mantiene il raccordo tra le parti.

Un calice come questo è evidentemente il riflesso di un’epoca in cui la Chiesa non ha ancora una grande consapevolezza di sé e l’attenzione è tutta concentrata sul mistero che si celebra dentro il calice. E’ evidente che ciò che interessa non è tanto il calice in se stesso, quanto il suo contenuto.

Circa sei secoli dopo troviamo questo magnifico calice ansato, custodito nel duomo di Fidenza, che secondo me rappresenta un interessante trait-d’union tra la forma antica del calice e quella moderna.

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Molte cose sono cambiate: innanzitutto si nota subito che le diverse parti del calice sono molto più proporzionate, la base e la coppa hanno più o meno la stessa larghezza. questo fa purtroppo sparire lo slancio verticale del Calice di Orso. Colpiscono due elementi: innanzitutto le anse laterali che decorano la coppa scolpite in forma di uccelli, forse pavoni che suggeriscono l’immortalità, che bevono alla coppa stessa ed hanno lo scopo di facilitare la presa. queste anse laterali parlano chiaramente di una comunità, che si raduna attorno alla coppa eucaristica. Molto rilevante è anche il nodo, che è la parte più decorata del calice e sembra segnare l’indissolubilità del legame tra cielo e terra. Nel complesso, rispetto al calice di orso troviamo un minore slancio mistico e piuttosto la contemplazione di una solidità, di una stabilità, che è, direi, ancora spirituale più che prevalentemente temporale, come vedremo in alcuni calici successivi, ma già parla forse più della Chiesa che del Mistero Eucaristico. Il sacerdote che celebra con questo calice è pensato non come il turbo che compie le nozze tra il cielo e la terra, ma come il rappresentante di una Chiesa in cui queste nozze avvengono.

Drammaticamente in soli tre secoli cambia tutto. Un esempio spettacolare di questo cambiamento è questo calice, detto di Nicolo IV, attribuito a Guccio di Mannaia e databile al 1290 ca.

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Cosa è successo nel frattempo? Nel frattempo è iniziata la teologia scolastica, la riflessione teologica ormai si fa nelle università più che nei monasteri, ci si occupa più delle prove dell’esistenza di Dio che di Dio stesso, la Chiesa nel frattempo diventa sempre di più uno stato parallelo, che contende all’impero il potere temporale.

Questo cambiamento è drammaticamente evidente nella forma di questo calice: ora la base è grande quasi due volte la coppa e la coppa non sembra più discendere dall’alto ed appoggiarsi sulla base, quanto piuttosto essere come una fioritura della base stessa. Non c’è più alcun movimento in questo calice: tutto è solido stabile e squadrato. Perfino è stata abbandonata la forma circolare della base in favore di quella poligonale, ancora più solida; è del tutto evidente che nel progettare questo calice l’artista si è concentrato assai più sulla base che sulla coppa: l’interesse non è più verso il mistero eucaristico, ma verso la Chiesa in cui il mistero si compie.

Per sovrappiù il nodo è ormai talmente intricato che più che congiungere sembra quasi separare le due parti, come una barriera che impedisca il passaggio dall’una all’altra, tanto più che è posto a metà dello stelo. Ciò che nella simbologia originaria doveva congiungere, ormai separa. Dove il calice indicava le nozze tra il cielo e la terra, adesso trasmette un senso di separazione e di alterità. L’oggetto nato per celebrare l’unione eucaristica della divinità e dell’umanità ormai celebra solo la gloria dell’umano. Questo calice non parla già più della gloria di Dio, ma della gloria della Chiesa.

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Da qui la strada è aperta verso ulteriori deformazioni, fino al periodo forse più inquietante, che è quello neoclassico. Osservate il calice disegnato dal Valadier per Pio IX nel 1849, conservato nel museo di S. Gennaro a Napoli.
Non so se Pio IX abbia mai usato questo calice, ma sono certo che la teologia del sacerdozio che racchiude è assai poco cristiana!

Certo, è recuperato lo slancio verticale, ma a che prezzo! La coppa è ormai strettissima, poco più grande dello stelo, più che un calice è un flute, uno solo può bere in quella coppa! Una coppa così parla di un rapporto con Dio che è ormai diventato del tutto individualista, parla di un cielo che è il cielo dei puri, di quegli eroi solitari che riescono ad elevarsi alle vette della virtù. Il nodo centrale per di più è diventato talmente complesso che ormai costituisce un terzo corpo intermedio tra la base e la coppa, la quale è ulteriormente separata dalle figure angeliche che hanno il compito di sostenerla. L’originaria struttura a due elementi più un anello di congiunzione è diventata di fatto una struttura a quattro elementi: questo calice parla di un Dio lontanissimo dal suo popolo.

E veniamo così ai giorni nostri. Voglio citare a titolo di esempio due calici di cui non voglio menzionare gli autori, per non alimentare polemiche ad hominem, calici che da una parte sembrano cercare soluzioni interessanti per recuperare alcuni elementi tradizionali, ma dall’altra mi sembrano risentire di una teologia del sacerdozio molto impoverita.

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In questo primo esempio vediamo una soluzione decisamente ardita: l’anello di congiunzione è addirittura sparito e la base e la coppa sono di materiali differenti, a sottolineare la diversità tra il cielo e la terra. L’autore sembra suggerirci che c’è nel mistero eucaristico qualcosa che non è riducibile alla sua base, che rispetto alla coppa resta sempre in definitiva “altro”. Nonostante la loro eterogeneità tuttavia i due elementi sembrano abbracciarsi in un movimento unico, come se si fondessero insieme diventando una cosa unica pur rimanendo due.

Eppure osservando questo calice non riesco a sottrarmi ad una sensazione di disagio. L’anello di congiunzione ha anche il significato di mantenere una certa distanza tra la coppa e la base, che in sé è sana, perché il cielo e la terra si uniscono al modo di Calcedonia, senza separazioni né confusioni, mentre questa soluzione mi sembra quasi parlare di una terra che assorbe ed ingloba il cielo, di una coppa che sparisce dentro la base.

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Impressione ancora più forte in questo secondo calice dove ormai la base ha fagocitato completamente la coppa, quasi nascondendola, tanto che la coppa riesce ad emergere praticamente solo da una sorta di squarcio nella base, come se si fosse aperta la strada dal basso con la forza… Una coppa che sorge dal basso! Nessuno mai nella storia dei calici poteva immaginare una cosa del genere, credo che sia quasi uno stravolgimento della teologia eucaristica. Questo calice parla di una Chiesa ormai del tutto secolare in cui l’eucaristia è molto più espressione della comunità che presenza del divino.

Non sono un artista, mi piacerebbe saper disegnare io stesso un calice ideale e per la verità non sono neppure sicuro che gli stimoli e le suggestioni in base a cui ho costruito il mio ragionamento siano corretti… prendetelo per quello che è: un divertissement spiritual/intellettuale, le divagazioni di un teologo dopo un pranzo abbondante.

QUI L’ORIGINALE

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