Parla don Fabio Pallotta, superiore della missione dei Guanelliani I guanelliani di Don Fabio sono presenti nelle ultime due tappe del lungo Cammino che attraversa il nord della Spagna da secoli e che – anticamente – aveva la sua origine nell’abbazia francese di Cluny. Sono almeno 300 mila ogni anno, in maggioranza spagnoli e italiani, che affrontano tutto o parte di un percorso fisico di circa 800 Km e per i quali sono normalmente necessari almeno una trentina di giorni.
Don Fabio e gli altri sacerdoti guanelliani si adoperano per assistere e seguire, anche fisicamente, i molteplici pellegrini che arrivano, dando consiglio, aiuto, ascoltando la confessione, o anche solo scambiando delle chiacchiere. Non mancano gli atei attratti dalla suggestione del cammino e dalla lettura di Paulo Coelho. La Stampa lo ha intervistato:
Chi è il pellegrino tipico?
«Non esiste. Dal sacerdote al religioso all’ateo conclamato. Però li accomuna la voglia di fare un’esperienza diversa, e tutti credono di venire qui a risolvere il dramma della propria vita».
E questo non avviene?
«No. Il cammino non risolve nulla. Semmai si torna a casa con un problema in più: avere conosciuto se stessi, che non è sempre glorificante».
Quindi è sopravvalutato?
«Lo si carica di troppe aspettative considerandolo una panacea che può risolvere le burrasche della vita. C’è chi è senza moglie e la cerca, chi ce l’ha e se ne vuole liberare, chi ce l’aveva e la piange perché se n’è andata, chi non va d’accordo con i figli e non li vuole più, chi ha abortito e chi non li può avere. Poi c’è chi ha avuto una condotta terribile nel passato; chi ha una vita mediocre e ne cerca una migliore. Chi è depresso. Chi non ha lavoro».
Ma allora a che cosa serve il Cammino?
«Il bene che produce deriva dall’incontro con la tomba dell’Apostolo Giacomo. E su questo aspetto cruciale c’è un paradosso pazzesco. Più del 95% viene qui senza sapere che c’è la tomba di San Giacomo, che è l’unico motivo per cui si compie il Cammino».