Una «comunità alternativa» che spezzi «quell’individualismo che sempre più inquina anche i processi formativi» e che aiuti le persone a formarsi e non trasformarsi in «attori di un mercato in competizione tra loro per accaparrarsi studenti, attirare più fondi statali, scalare le classifiche internazionali». È questo il modello di università che propone monsignor Nunzio Galantino.
Intervenendo oggi alla Università Europea di Roma per l’inaugurazione dell’anno accademico insieme al presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, Raffaele Cantone, il segretario generale della Cei parla – usando un neologismo – di «multiversità» per indicare la missione che le comunità universitarie sono chiamate a compiere nell’attuale mondo globalizzato: «valorizzare le differenze della società su cui va a incidere» e «rispondere alle mutevoli esigenze che si presentano in ogni epoca».
«In un mondo che non può fondarsi solo sui mercati e sulla tecnica, il patrimonio culturale fornito dall’università gioca un ruolo decisivo», afferma monsignor Galantino. L’università, aggiunge, deve «porsi al centro degli snodi culturali e sociali esercitando l’arte del discernimento animato dalla ricerca del bene dell’uomo, di tutto l’uomo, di tutti gli uomini. Forte delle sue competenze scientifiche, essa deve farsi carico anche di formare una coscienza critica sulle tendenze in atto, senza schiacciare i propri processi formativi sotto il peso del pensiero dominante o della dittatura del mercato».
Nelle università, annota il presule, «impresa scientifica e comunità educante si rafforzano a vicenda fondandosi in un patto educativo che non ha niente dell’ottica aziendalista che riduce lo studente a cliente e stravolge il rapporto tra maestro e allievo di cui non cessiamo di avere bisogno, al di là di tutte le possibilità offerte dalle nuove tecnologie applicate all’insegnamento e all’apprendimento».
È in tal senso che l’università si presenta come una «comunità alternativa» rispetto «a una certa mentalità diffusa»: essa «forma persone e non solo si preoccupa di preparare lavoratori, finalità sacrosanta ma non esaustiva del suo compito». «Una missione non può esaurirsi al contributo che essa fornisce al sistema produttivo», chiosa il segretario Cei. E sottolinea che in particolare «le istituzioni accademiche di ispirazione cristiana possono aiutare l’università tutta a scrutare più profondamente il mistero dell’uomo, per comprendere il suo ruolo di interprete, di custode e di edificatore del mondo, di ricercatore della verità, di costruttore di fraternità, di dialogo e di pace».
Si tratta, spiega, di riproporre «le domande di fondo circa il suo ruolo nella società, la conoscenza come bene comune, la sua vocazione all’apertura, all’incontro, al superamento delle barriere». È qui che entra in gioco la «triplice missione» delle Università chiamate ad essere «centri di formazione e di studio non autoreferenziali e chiusi in se stessi, ma consapevoli che il servizio alla società fa parte dei propri doveri».
Come detto da Papa Francesco nei suoi discorsi al mondo della cultura, l’università è il «luogo in cui si elabora la cultura della prossimità» e «il luogo in cui si promuove, si insegna, si vive» la “cultura dell’incontro” che aiuta a «comprendere e valorizzare le ricchezze dell’altro, considerandolo non con indifferenza o con timore, ma come fattore di crescita». Un incontro anzitutto «con le culture» e «tra persone e gruppi portatori di valori, tradizioni, lingue, visioni religiose e stili di vita plurali»
Di pari passo a questa “cultura dell’incontro” esiste, però, una “cultura dello scarto” che – ammonisce il numero due della Cei – può trovare spazio anche nelle università «finendo con perpetuare logiche di competizione esasperata o replicando meccanismi di esclusione di cui vediamo gli esiti nella nostra società». «Il mondo di oggi – evidenzia Galantino – conosce infatti il tragico paradosso di aver superato vecchie frontiere e inimicizie e allo stesso tempo aver innalzato nuove barriere, non solo fisiche ma anche di conoscenza e di accesso al sapere».
Occorre, pertanto, «riattivare una riflessione alta intorno al senso e al futuro dell’università», non eludendo «la domanda su qual è l’idea di umanità a cui ci stiamo ispirando per disegnare il nostro futuro».