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“L’acqua è il nuovo petrolio, 343 conflitti in corso per il suo controllo”

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Vatican Insider - pubblicato il 27/02/17
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«Guerra e pace in Medio Oriente passano per il controllo delle acque», spiega Michela Mercuri, docente di Storia contemporanea dei paesi mediterranei all’Università di Macerata ed esperta dei temi della sicurezza, della politica e dell’economia dei paesi del Nord Africa e Medio Oriente. «Intervenendo al seminario sul diritto umano all’acqua organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze alla Casina Pio IV, il Papa si è chiesto se in questa “terza guerra mondiale a pezzi” stiamo in cammino verso la grande guerra mondiale per l’acqua e il suo intervento richiama l’attenzione su una questione geopolitica decisiva, ma non adeguatamente affrontata dalla comunità internazionale», evidenzia Mercuri che con Pietro Stilo, storico dell’università di Reggio Calabria, ha approfondito il “water conflict” a livello globale. «La pace in Medio Oriente così come in tutte le aree del mondo in cui vi è scarsità di tale risorsa, deve passare anche attraverso accordi politici per la gestione dell’acqua». Insomma “l’oro blu” è la nuova frontiera. 

Francesco ha richiamato le cifre ufficiali pubblicate dall’Onu: ogni giorno, mille bimbi muoiono a causa di malattie collegate all’acqua. E l’acqua contaminata è consumata ogni giorno da milioni di persone. In che modo l’accesso alle risorse idriche e le acque contese possono provocare anche guerre? 

«La forte denuncia del Papa poggia su dati inoppugnabili. Sono in corso in questo momento ben 343 casi di crisi legate alla gestione delle risorse idriche. Recentemente Uri Shamir, membro dell’Israel Water Authority, ha detto che l’acqua non è un ostacolo per la pace, ma può fornire pretesti a colui che cerca delle ragioni per combatter. E la storia ci dimostra che non sempre il buon senso prevale sulla realpolitik. In Medio Oriente, ed in particolare nelle aree controllate dal Califfato, non è solo il petrolio l’elemento di maggior interesse per i contendenti. Anche l’acqua è un fattore strategico e una posta in gioco prioritaria della “partita a scacchi” tra gli attori locali, regionali e internazionali coinvolti nel mosaico siro-iracheno». 

Il Califfato punta all’acqua e non solo al petrolio? 

«Tutti ambiscono ad accaparrare porzioni del territorio e nessuno è disposto a cedere quote della propria sovranità. In questo contesto, la persistente scarsità idrica e il conflitto con lo Stato Islamico hanno indebolito ulteriormente la capacità dell’Iraq e della Siria di negoziare accordi per la condivisione delle acque con la Turchia, innescando una spirale drammatica in cui la mancanza di acqua alimenta il conflitto, che a sua volta accresce i rischi per la gestione e la manutenzione delle risorse riducendone la disponibilità, causando un ulteriore aumento delle tensioni precedenti. Seppure le milizie del Califfato dovessero subire una fase di arretramento, come sembra emergere dai fatti recenti, i problemi per la gestione di questa risorsa potrebbero non subire mutamenti sostanziali, se non nel numero o nella denominazione degli attori coinvolti». 

Quindi l’appello del Papa, quindi, è rivolto ai governi e alle organizzazioni internazionali? 

«Sì. Il Pontefice ha il coraggio e il merito di entrare a gamba tesa in una situazione tragica ma passata sotto silenzio. Le tensioni in atto nel pianeta dimostrano come l’acqua possa divenire arma, bersaglio e minaccia nella politica estera degli Stati. È arma politica quando viene usata per condizionare le scelte strategiche di un paese o allargare un territorio in chiave offensiva o difensiva, come fece Saddam Hussein tentando di prosciugare le zone paludose a sud di Baghdad abitate dagli sciiti ostili al regime per favorirne l’esodo. Ma è arma tout court quando viene inquinata per mettere in ginocchio la popolazione locale o per colpire l’esercito nemico. Ed è bersaglio quando vengono colpite le riserve idriche di un paese per condizionare gli esiti di un conflitto». 

Due giorni prima di intervenire al seminario vaticano, il Papa aveva già fatto riferimento al tema durante l’ultima udienza generale in piazza San Pietro: «L’acqua ci aiuta in tutto, ma per sfruttare i minerali si contamina l’acqua e si sporca e distrugge la creazione». Il “water conflict” parte della globalizzazione dell’indifferenza di cui Francesco parla spesso?». 

«Sì perché l’acqua diventa una minaccia quando con la costruzione di argini e barriere gli Stati si appropriano di questa risorsa, sottraendola ad altri. Il Papa fa riferimento a uno scenario complesso, nel quale uno dei quadranti più a rischio è quello mediorientale, dove le dispute per l’acqua si intrecciano con un contesto di cronica instabilità politica ed una persistente penuria di risorse». 

Perché lei considera un importante passo geopolitico oltreché umanitario e religioso l’intervento del Papa sull’acqua? 

«Il Papa sa che la storia del Medio Oriente è anche una storia di fiumi contesi: il Giordano, condiviso da Israele, Giordania, Siria, Libano e Cisgiordania, ma prevalentemente utilizzato da Israele; il Nilo sfruttato principalmente dall’Egitto, nonostante attraversi ben nove Stati, e causa di fratture storiche alla base della crisi di Suez, della seconda guerra arabo israeliana del 1956 e delle attuali tensioni con Etiopia e Sudan; il Tigri e l’Eufrate, controllati dalla Turchia e da cui dipendono Siria e Iraq. In particolare questi ultimi due corsi d’acqua sono oggi una delle questioni di maggiore tensione internazionale, “bersaglio, arma e minaccia” della geopolitica turca, ma anche parte di un risiko in cui stanno emergendo nuovi attori non statuali, come i jihadisti del cosiddetto Stato islamico». 

Può farci un esempio di conflitto per l’acqua? 

«Abbiamo particolarmente focalizzato gli studi condotti con il collega Pietro Stilo su una situazione che in questo senso è emblematica. È la questione della diga di Mosul, l’antica Ninive, sul fiume Tigri, la più grande dell’Iraq e la quarta del Medio Oriente in ordine di grandezza. La diga ha un invaso di circa 8 milioni di metri cubi d’acqua, una centrale idroelettrica da 750 megawatt e serve un bacino d’utenza di circa 2 milioni di persone ma si trova in un’area molto vicina ai territori controllati dallo Stato Islamico. Ad aggravare la situazione, va ricordato che, sin dalla sua messa in funzione, nel 1986, ha presentato problemi di “instabilità” dovuti al terreno sottostante, tant’è vero che uno studio americano nel 2006 l’ha definita una delle più pericolose al mondo. La diga, dunque, richiede necessariamente una manutenzione straordinaria che negli ultimi anni, a causa della guerra, non è stata realizzata». 

Cosa accadrà adesso a Mosul nella corsa all’oro blu? 

«Nonostante gli evidenti rischi oggi la ristrutturazione è stata avviata in seguito ad una gara vinta da un’impresa italiana, la società Trevi di Cesena. Per l’esecuzione di questa operazione è stato previsto l’invio di 450 militari da parte del governo italiano a protezione del sito e dei circa 500 lavoratori (quasi uno a testa). Ciò a riprova dell’importanza che l’acqua riveste in questo delicato scenario». 

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