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Il dialogo della vita fra cristiani e musulmani

Vatican Insider - pubblicato il 23/02/17

L’Islam è una religione mondiale che sembra essere un monolite per chi non la conosce. Potrebbe aiutarci ad avere un’idea della diversità all’interno delle comunità musulmane del mondo?

«Con più di un miliardo di fedeli, il mondo islamico è variegato come lo è quello cristiano. Ci sono differenze culturali fra una cultura e l’altra, differenze teologiche e diversità di approcci e reazioni rispetto alla vita moderna. Per iniziare con le differenze culturali, molti ignorano che la maggioranza dei musulmani non vive in Medio Oriente bensì in Asia. Le quattro nazioni con il più alto numero di musulmani sono l’Indonesia, l’India, il Pakistan e il Bangladesh mentre i musulmani di lingua araba formano circa il 20% del totale. Uno degli errori che alcuni fanno è di identificare l’Islam con ciò che accade nel mondo arabo mentre si tratta solo di una delle molte manifestazioni dell’Islam.  

Esiste anche una varietà teologica – che possiamo chiamare anche storica – e questa è la differenza fra sunniti e sciiti. Essa non risale ad una questione teologica bensì storica: Muhammad aveva nominato un successore o no? La maggioranza dei musulmani – circa il 90% – disse che non lo aveva fatto e che aveva lasciato la scelta della leadership alla comunità mentre una minoranza – circa il 10 % – disse che aveva nominato come successore suo genero Ali. A partire da questo disaccordo storico, si sono sviluppate separatamente due forme di Islam al punto che oggi si notano varie divergenze fra i musulmani sunniti e sciiti. Ciò può portare al conflitto, particolarmente quando uno dei due gruppi ha più potere economico o politico rispetto all’altro. Lo vediamo accadere in paesi come l’Iraq e il Bahrein. Ma dobbiamo prendere in considerazione i diversi contesti. Se guardiamo ai musulmani negli Stati Uniti o in Svezia, non riscontriamo conflitti fra sunniti e sciiti: frequentano la stessa moschea e pregano insieme perché il contesto non solleva questioni conflittuali.  

Il terzo tipo di diversità riguarda il modo in cui le persone rispondono alla modernità. Alcuni la vedono in ottica di liberazione, è qualcosa che desiderano e la considerano buona per i musulmani. Altri non hanno problemi con gli sviluppi tecnologici ma trovano che ci sia un aspetto culturale problematico della modernità di cui sono sospettosi. Altri ancora vedono la modernità come una piaga che viene dai paesi occidentali per allontanare le persone da Dio.  

Quindi, quando parliamo di musulmani, parliamo davvero di un’ampia varietà di persone e approcci alla religione e alla vita moderna».  

Il dialogo della vita fra musulmani e cristiani in Terra Santa deve essere vissuto ogni giorno. Quale crede che siano gli aspetti fondamentali che favoriscono l’incontro fra queste comunità?

«Nel pensiero della Chiesa c’è stato uno sviluppo importante quando abbiamo cominciato a parlare di dialogo. Paolo VI in Ecclesiam Suam riprese l’idea che era già stata sviluppata da Martin Buber ed altri che una persona cresce in rapporto al suo parlare con l’altro e viceversa. Tuttavia, per molti cristiani nel mondo, e forse fra loro anche i cristiani in Israele e Palestina, l’idea del dialogo suonava elitaria e solo per le persone molto istruite e per i leader religiosi. La loro esperienza dei musulmani era quella del vicino della porta accanto e non potevano riunirsi e discutere di temi come la Trinità con loro anche per paura di fare errori. La Chiesa ha risposto loro dicendo che non era questo che dovevano fare ma che ognuno era invitato al dialogo della vita all’interno del quale si è chiamati a vivere la propria fede cristiana profondamente e interamente come si può, nella piena accettazione dei musulmani con cui si vive.  

Il dialogo della vita avviene nel prendersi cura degli anziani della comunità, nel far crescere bambini timorati di Dio, nel vedere chi sono gli emarginati, i poveri e i bisognosi ed aprire loro i cuori e le istituzioni. Così facendo è come se i cristiani lanciassero una sorta di “sfida” ai musulmani e si lasciassero al tempo stesso sfidare dalle buone azioni degli altri: ecco che cos’è il dialogo della vita. Prima viene il dialogo delle semplici comunità e, una volta instaurato, tutti gli altri livelli di dialogo trovano il loro posto.  

I cristiani in posti come la Palestina e la Siria lo hanno vissuto per secoli: condividono cultura e lingua, cantano le stesse canzoni, raccontano le stesse barzellette e guardano gli stessi film. E il dialogo della vita si compie quando condividono anche il meglio della loro fede.  

Per concludere, dobbiamo impegnarci nel dialogo della vita, nel concetto di vivere insieme e di pace, tanto quanto altri sono impegnati nel dividere le persone e distruggerlo».  

Quest’anno ad Assisi il Santo Padre ha celebrato il 30° anniversario dell’incontro interreligioso per la giornata di preghiera per la pace. Come può la preghiera avvicinarci gli uni agli altri?

«Preghiamo quando siamo coscienti di essere alla presenza di Dio. Possiamo avere idee diverse riguardo a chi è Dio ma credo che possiamo pregare come Abramo e Melchisedek hanno fatto. È nella preghiera che ci rendiamo conto delle qualità di Dio e, quando acquisiamo questa consapevolezza insieme a qualcun altro, diventa più difficile essere sospettosi o arrabbiarsi con l’altro». 

Può condividere con noi un’esperienza di dialogo che l’ha particolarmente toccata?

«Nel 1988 insegnavo teologia cattolica a Konya, in Turchia. Vivevo in un appartamento nella parte antica della città ma era completamente vuoto. L’ho detto alle persone all’università e qualcuno mi ha detto che conosceva una persona che forse aveva un letto in più da darmi. Andai a trovare questa persona che non avevo mai incontrato prima: gli dissi chi ero e che mi era stato detto che forse poteva prestarmi un letto. Immediatamente prese il letto e lo portò al mio appartamento. La gente per strada mi vide e mi chiese chi ero. Dissi loro che ero un professore e che avrei insegnato teologia all’università. Pensavano che fossi musulmano ma dissi loro che ero un prete cristiano. Mi chiesero se avessi bisogno di qualcosa per l’appartamento e risposi loro che una sedia sarebbe stata utile. Nel tempo che impiegai per andare a prendere il materasso e tornare, sembrò che tutta la gente per le strade fosse venuta a conoscenza della mia situazione ed ognuno mi offriva qualcosa. Per i tre giorni seguenti, la gente del quartiere continuò a venire portando mobili e oggetti vari: bicchieri, piatti, un tavolo, sedie, tappeti… 

Quando tornai a casa dopo il primo giorno di insegnamento, c’era un uomo seduto fuori dal mio appartamento ad aspettarmi. Mi disse che sua moglie era venuta durante la giornata ma la porta era chiusa a chiave e non era potuta entrare. Mi spiegò che non c’era bisogno di chiudere a chiave la porta. Ho pensato che così facendo avessi offeso il vicinato dicendo alla gente che non mi fidavo di loro e così non ho mai più chiuso a chiave la porta. 

Così, un giorno tornando a casa, trovavo sul tavolo un piatto coperto con delle pietanze cucinate. Mangiavo e, un paio di giorni dopo, il piatto spariva dal mio appartamento. Qualche giorno dopo, compariva altro cibo. Un altro giorno tornavo a casa per trovare che i miei vestiti erano stati lavati e stirati. Andammo avanti così per circa sei mesi e non vidi mai chi faceva tutto questo perché i vicini sapevano quando insegnavo all’università e venivano quando sapevano che non ero in casa.  

Alla fine del semestre, giunto il momento di partire, dissi a un uomo del quartiere che avevo un’ultima richiesta: alcune donne del quartiere erano state davvero buone nei miei confronti e volevo incontrarle una volta sola per ringraziarle. L’uomo mi rispose che non dovevo incontrarle e ringraziarle: non lo avevano fatto per me ma per Dio e Dio che vede ciò che loro hanno fatto nel segreto, le ricompenserà. Questo è il dialogo della vita». 

In collaborazione con l’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme

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