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Centrafrica, i “gemelli di Dio” uniti per la pace

Vatican Insider - pubblicato il 22/02/17

Quando, nel marzo 2013, i ribelli Seleka, in gran parte musulmani, presero con la forza il potere in Centrafrica estromettendo Francois Bozize e installando al suo posto Michel Djotodia, si fece ben presto strada tra la popolazione cristiana il progetto di una reazione armata che condusse alla costituzione della milizia “anti-Balaka”. Il conflitto che ne seguì, portò il Paese nel caos più totale e causò la morte di migliaia di persone. Il regime di Djotodia, distintosi fin dai primi giorni per violazioni di diritti umani e civili, sempre più isolato e debole – anche a causa dell’intervento francese (che inviò 1600 uomini, ndr) – ebbe vita breve: nel gennaio del 2014 il leader dei Seleka fu costretto alle dimissioni. Da quei momenti, la Repubblica Centraficana, cronicamente instabile, vive in uno stato di tensione permanente e assiste a un inedito inasprimento dei rapporti tra cristiani e musulmani.  

Proprio nel culmine degli scontri, nel dicembre 2013, allorché le milizie anti-Balaka lanciarono una spaventosa campagna militare contro i musulmani, uccidendone un migliaio e costringendo alla fuga molti di più, il cardinale Dieudonné Nzapalainga accolse nelle sua residenza l’Imam Omar Layama, presidente della Central African Islamic Community, e la sua famiglia. Ergendosi a modello di convivenza e amicizia al di là delle differenze, il porporato e il leader islamico, lanciarono un messaggio al proprio paese e al mondo intero dilaniato da conflitti legati a religioni e culture e si guadagnarono il significativo titolo di “gemelli di Dio”.  

I due – cui in seguito si è aggiunto Nicolas Guérékoyame-Gbangou, il presidente dell’Alleanza Evangelica della Repubblica Centraficana – hanno ottenuto l’apprezzamento di molti, il sostegno di Papa Francesco che in una storica visita nel novembre 2015 richiamò tutti alla pace, ma attirato anche forte critiche proprio dai loro stessi correligionari che ritengono questa amicizia blasfema. A Vatican Insider, il cardinale  Nzapalainga parla della situazione attuale, delle speranze di pace, del ruolo fondamentale nel processo di riconciliazione che i leader religiosi possono giocare, e della speciale amicizia che lo lega all’Imam. 

Eminenza, una prima domanda è sulla situazione al momento: ci sono stati scontri di recente e le tensioni sono ancora presenti: ci può dare un aggiornamento?

La situazione è preoccupante. A parte Bangui, il 60% del territorio del Paese, sfugge al controllo dello Stato. Gli agenti fanno da comparse, i gruppi armati hanno mantenuto inalterato il loro potere e tengono in ostaggio fette di popolazione. Questi signori della guerra hanno diritto di vita e di morte sulla gente inerme. Le uniche notizie positive vengono da Bangui che ha finalmente ritrovato la calma: la vita è ripresa e con essa, alcune attività. Anche il “KM 5”, l’enclave musulmana della città, è tornata alla tranquillità.   

Il referendum alla fine del 2015 e le elezioni nel 2016 hanno portato qualche progresso, ma quanto manca ancora alla pacificazione del Paese? Quali sono i problemi principali?

Le elezioni si sono svolte in maniera tranquilla e trasparente e questo ci fa capire che i miei concittadini vogliono prendere parte al processo democratico e sperano in un domani migliore. La pace è una preoccupazione condivisa in questo Paese, molti centrafricani la cercano attraverso il dialogo e le azioni quotidiane. Ma uno dei problemi maggiori che ancora infestano la Repubblica Centrafricana sono le interferenze esterne che agiscono nel Paese attratte dalle ricchezze nel sottosuolo: diamanti, petrolio e uranio. Ci sono grandi potenze che cercano di conquistare territori da sfruttare. E così, oltre a generare continue tensioni, lasciano il Paese in estrema povertà. Il malgoverno ha giocato un ruolo determinante nel conflitto; purtroppo da noi clientelismo, tribalismo, corruzione, sperpero, sono all’ordine del giorno. E tutto ciò ha prodotto frustrazione, senso di esclusione. L’impunità sembra essere divenuta una regola e i più forti uccidono i più deboli per imporsi senza che nessuno gli opponga ostacoli.   

Da molti nel mondo il conflitto nel vostro paese è visto come uno scontro tra cristiani e musulmani, è così?

Il conflitto non ha nulla a che fare con la religione perché nessun prete, imam o pastore ha mai chiesto ai fedeli di uccidersi a vicenda. Qui non ci si batte per il Corano o la Bibbia. La gente si batte per i diamanti, il petrolio, l’uranio. I gruppi armati occupano il territorio per seminare scompiglio e per approfittare del caos che ne deriva. Ma la religione che c’entra? Al momento, per fare un esempio, Upc e Fprc (due gruppi militari che in passato facevano parte dei Seleka, ndr) sono in aperto conflitto e sono entrambi musulmani. 

A dicembre del 2013, durante gli scontri più duri, lei ha accolto nelle sua casa l’iman Layama e la sua famiglia per proteggerli dagli attacchi. Lei e l’Imam da quel giorno siete oltre che amici, una coppia di difensori della pace e del dialogo. Ci parli del suo rapporto con l’Imam e del lavoro per il dialogo tra cristiani e musulmani

Prima di quei tragici avvenimenti io e l’Imam ci conoscevamo solo di nome. La crisi ci ha avvicinato. Tutti parlavano di crisi religiosa e noi, con un gesto molto semplice, abbiamo confutato questa teoria. Il 5 dicembre 2013, gli anti-balake lanciavano il loro attacco su Bangui. Sapevo che l’Imam abitava in una zona che presto sarebbe stata attaccata dalle truppe anti islamiche e andai a incontrarlo per offrirgli rifugio dal pericolo. Tre giorni dopo la sua casa è stata distrutta. Tutta la sua famiglia ha trovato rifugio presso l’Arcivescovado. Abbiamo così iniziato il dialogo nella crisi per difendere insieme la popolazione del Centrafrica a nostro rischio e pericolo. Abbiamo imparato a rispettarci e vedere le nostre differenze religiose come complementari e fonte di ricchezza. Viviamo quotidianamente l’accettazione dell’altro e chiediamo all’unisono la pace. 

Qual è l’impegno della Chiesa cattolica per la pace e la giustizia nella Repubblica Centrafricana?

La Chiesa cattolica deve essere fedele al messaggio di Cristo, venuto a portare la pace. Ogni cristiano è artigiano della pace e l’impegno per la pace è una priorità assoluta. Ma la pace si conquista con gli altri, non da soli, dialogando con gli altri creiamo le condizioni di una pace durevole. La Chiesa cattolica predica l’apertura, l’accettazione, il rispetto e la stima dell’altro, creato a immagine di Dio. La giustizia è il nome di Dio poiché protegge i deboli e noi siamo chiamati a difendere i piccoli, gli abbandonati, i poveri, i senza voce. Per noi è fondamentale riconoscere i propri errori, la riparazione e l’accettazione della riconciliazione per una vera giustizia.  

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