Le racconta don Xeres in un volume pubblicato in occasione dei 500 anni dalla Riforma
Nel 1517 papa Leone X, volendo ricostruire la basilica di San Pietro a Roma, e non disponendo dei mezzi necessari, aveva bandìto in tutto il mondo una speciale indulgenza per coloro che avessero fatto un’offerta in denaro.
L’indulgenza era una sorta di condono delle pene che il credente avrebbe dovuto scontare nel Purgatorio, che il papa concedeva a quei fedeli, sinceramente pentiti, disposti a compiere particolari penitenze (pellegrinaggi, elemosine, opere meritorie…). Lo “sconto” offerto da questi certificati d’indulgenza era proporzionato all’importo del denaro.
In protesta contro questo sistema il frate tedesco agostiniano Martin Lutero arrivò ad affermare che le opere, le azioni, i meriti personali non sono sufficienti per salvarsi: la mancanza di fede in Dio, o di coscienza personale del proprio limite, non può essere sostituita da tali indulgenze.
Ecco perché, secondo Lutero, le indulgenze, così come i pellegrinaggi, i digiuni, i voti di santità povertà obbedienza, non servono a giustificare. Per salvarsi occorrono due cose: la volontà di Dio e la fede dell’uomo. L’uomo si giustifica per fede e per grazia. Può fare delle “buone azioni”, ma a titolo personale e non perché obbligato da qualche legge o consuetudine.
LE PRIME DENUNCE
In “O Roma o Cristo” (Ancora editrice), don Saverio Xeres racconta, in occasione dei 500 anni dalla Riforma, il processo che subì Lutero arricchendolo di numerosi retroscena.
Già alla metà di dicembre 1517 le 95 Tesi del frate tedesco furono inviate alla curia papale dall’arcivescovo Alberto di Magonza, protagonista primo di quella iniziativa indulgenziale. Altre denunce formali nei confronti di Lutero vennero comunicate a Roma dal domenicano Tetzel, a capo del gruppo dei commissari incaricati della predicazione e della “vendita” delle indulgenze.
LA LETTERA A LEONE X
Nel momento in cui, alla fine di maggio 1518, Lutero inviò una lettera a papa Leone X in persona, un procedimento giudiziario venne aperto nei suoi confronti. Pertanto, questo tentativo di correggere in qualche modo una situazione sempre più compromessa ebbe piuttosto l’effetto di confermare, agli occhi della curia, l’ostinazione di quel giovane frate, il quale insisteva a prendere posizioni pubbliche che in Germania, e ora anche a Roma, apparivano quantomeno sovversive, probabilmente non esenti da eresia.
IL POTERE DEL PAPA
Il tribunale incaricato di processare Lutero era presieduto da un vescovo, Gerolamo Ghinucci, titolare della sede di Ascoli ma impegnato stabilmente nella curia romana, con compiti soprattutto di carattere diplomatico e amministrativo. Dal momento che le questioni sollevate dall’agostiniano di Wittenberg vertevano su tematiche propriamente teologiche, venne richiesto un parere al “maestro del sacro palazzo”, ovvero il teologo di corte, il domenicano Silvestro Mazzolini (detto Prierias dal suo borgo natale, Priero, nel Cuneese). Questi, nel giugno 1518, redasse una disamina delle posizioni luterane intitolata Dialogus de potestate papae: “Dialogo (nel senso generico di “trattato”, non certo di una discussione aperta) sul potere del papa”.
IL “CAMBIO” DELL’ACCUSA
In altri termini, l’accusa contro Lutero si stava sensibilmente spostando dal tema delle indulgenze, sul quale egli aveva chiesto di avviare un confronto, a quello del potere del papa, che egli non aveva voluto mettere in questione, anzi aveva inteso difendere dalle critiche che la cattiva prassi della curia gli attirava addosso.
Ciò che non poteva essere tollerato nel comportamento del frate agostiniano era il suo essersi posto, di fatto, contro un’iniziativa – la predicazione indulgenziale richiesta dall’arcivescovo Alberto – comunque approvata, anzi indetta e firmata dal papa, quali ne fossero gli scopi e i metodi. Lutero si era dunque posto contro l’autorità suprema della Chiesa criticabile, dal punto di vista dell’ortodossia.
L’IPOTESI DI RITRATTAZIONE
A questo punto, non restava a Lutero che una sola via d’uscita, oltretutto benevolmente concessagli in deroga alla consueta procedura giudiziaria nei confronti di un eretico: ritrattare, appunto. In tal caso, sarebbe stato benignamente perdonato. A ciò soltanto – ovvero a ottenere tale ritrattazione e concedere il conseguente perdono – era autorizzato, il cardinale Gaetano, anch’egli domenicano.
L’INCONTRO-SCONTRO DI AUGUSTA
L’incontro si svolse ad Augusta, dal 12 al 15 ottobre 1518.
«[Il cardinale] non volle che gli rispondessi in una pubblica disputa e non volle neppure disputare con me privatamente. Una cosa sola continuamente ripeteva: “Ritratta, riconosci il tuo errore, così vuole il papa, e non diversamente; vuoi o non vuoi?”, e altre cose di questo genere».
Non si può non rilevare una buona dose di ingenuità in quelle attese di dialogo coltivate da Lutero. Così, quell’incontro che era apparso compromesso fin da subito, si concludeva con entrambi i protagonisti fermi sulle posizioni iniziali.
L’APPELLO AL PONTEFICE
Prima ancora di procedere alla pubblicazione degli atti del fallito incontro di Augusta (Acta Augustana), con l’intento di difendere la propria posizione e coinvolgere l’opinione pubblica, Lutero, a una sola settimana di distanza da quell’incontro, il 22 ottobre 1518, compì un passo ancora più impegnativo, appellandosi pubblicamente al papa.
LA BOLLA SULLE INDULGENZE
Nel frattempo, il Gaetano sollecitava da Roma una dichiarazione pontificia che facesse finalmente chiarezza sul tema delle indulgenze. Il che avvenne – probabilmente sulla base di un testo da lui stesso redatto – con la decretale Cum postquam, pubblicata da Leone X il 9 novembre 1518.
Il documento pontificio iniziava, infatti, affermando il potere concesso al «successore del clavigero Pietro e vicario di Gesù Cristo in terra» di sciogliere i fedeli «dalla colpa e dalla pena dovuta per i peccati: la colpa attraverso il sacramento della penitenza, la pena temporale […] mediante l’indulgenza ecclesiastica». Quest’ultima veniva concessa dall’autorità apostolica sulla base «della sovrabbondanza dei meriti di Cristo, sia in questa vita, sia in Purgatorio, per i vivi come per i morti», nel secondo caso come suffragio.
IL FUTURO CONCILIO
A questo punto, Lutero compì un ulteriore passo, ancora più impegnativo e compromettente: l’appello, contro il papa, a un futuro concilio.
Pertanto, chiedendo che la propria posizione fosse valutata da un futuro concilio, rispetto a quanto era appena stato determinato dalla sede papale sulla questione da lui sollevata, Lutero mostrava chiaramente di non considerare l’autorità del pontefice quale comunemente era ritenuta, ovvero suprema e inappellabile.
Il dado appariva tratto, dunque, da parte di Lutero, e Roma poteva con buone ragioni condurre il processo alla sua conclusione.
LA BATTAGLIA CON ECK
Fin dai primi giorni del 1520, a Roma era ripreso di buona lena il processo contro Lutero, anche mediante l’istituzione di una prima commissione incaricata della stesura del documento di condanna delle sue posizioni teologiche. Il lavoro, passato successivamente a una seconda commissione, ricevette un impulso decisivo con l’arrivo a Roma del cardinale Eck, il grande avversario di Lutero in Germania.
LA CONDANNA DELLE TESI DI LUTERO
Il testo venne redatto in forma di bolla – individuata, secondo la consuetudine, dalle parole iniziali: Exsurge, Domine («Sorgi, Signore» [Sal 7, 7]) – firmata da Leone X il 15 giugno 1520, per poi essere pubblicata a Roma e in Germania, dove peraltro giungerà solo nell’autunno successivo.
Il cuore del documento è costituito da un elenco di 41 proposizioni tratte dagli scritti di Lutero e riguardanti essenzialmente il rapporto tra la grazia di Dio e le opere dell’uomo, con particolare riferimento ai sacramenti – alla Penitenza, soprattutto – e alle indulgenze. Sono testi, dunque, condannati come erronei, tuttavia secondo gradazioni piuttosto diversificate: alcuni, infatti, sono valutati come propriamente «eretici», oppure «falsi o scandalosi», altri sono considerati semplicemente «offensivi per le persone religiose» o «capaci di attrarre le menti ingenue».
LA “SOSPENSIONE” DEL FRATE
Inoltre, mentre i libri luterani venivano destinati a essere bruciati pubblicamente, l’autore di tanti errori avrebbe dovuto astenersi da ogni predicazione e insegnamento. Permaneva dunque la medesima linea assunta a Roma fin dall’inizio del processo: al teologo di Wittenberg si offriva un’unica via di uscita, quella appunto della ritrattazione.
VERSO LO SCISMA
Benché la bolla papale, come già ricordato, non fosse stata diffusa in Germania prima del settembre 1520, Lutero poté indubbiamente venire a conoscenza della condanna ormai emanata nei suoi confronti grazie a qualche informazione filtrata dalla città dei papi, attraverso canali ecclesiastici o diplomatici.
Fu in quel momento che l’agostiniano decise di arrivare alla battaglia finale nella quale, peraltro, non voleva rimanere solo: di qui l’appello “Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca“.