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Silence, Scorsese e la missione nella Chiesa

Vatican Insider - pubblicato il 14/02/17

Dal 13 febbraio 2017, sul sito dell’agenzia Fides, si può accedere anche alla finestra di “Omnis Terra”, la rivista di cultura, missione e news analysis edita dai Segretariati internazionali delle Pontificie Opere Missionarie, che ha abbandonato la versione cartacea. “Omnis Terra” è nata nel 1961 in lingua francese, come bollettino interno del Segretariato Internazionale della Pontificia Unione Missionaria (PUM). “Erano gli anni del risveglio primaverile dell’identità missionaria della Chiesa intera” e, all’alba del Concilio “la Chiesa, i padri conciliari, iniziavano a prendere coscienza che la missione non era affare di pochi, ossia solo dei missionari”, rileva P. Fabrizio Meroni, Segretario Generale della PUM e Direttore di “Omnis Terra”. Dal primo numero della rivista, è impreziosito da un servizio fotografico dal titolo “Il sacro, oltre i confini”, firmato da Monika Bulaj, fotoreporter polacca che da anni viaggia “nelle sacre periferie delle genti del Libro”, pubblichiamo un approfondimento di Gianni Valente che torna sul tema del film “Silence” di Martin Scorsese leggendolo in rapporto alla missione

Silence non è “solo” un capolavoro destinato a lasciare il segno nella cinematografia di questi anni. Il film del regista statunitense Martin Scorsese, tratto dall’omonimo romanzo – pubblicato nel 1966 – dello scrittore giapponese Shusaku Endo, rappresenta un dono inatteso di cui dovrebbero rendere grazie anche tutti coloro che, nei modi più diversi, sono coinvolti nella missione apostolica della Chiesa. Perchè seguendo il loro genio artistico, sia Scorsese che Shusaku intuiscono e raccontano fin nei connotati più intimi e vertiginosi il dinamismo proprio e imparagonabile della avventura missionaria entrata nel mondo con la promessa del Vangelo. E lo propongono alla sensibilità del nostro tempo con una efficacia e una forza espressiva che non si rintracciano facilmente nelle riflessioni missiologiche circolanti tra gli “addetti ai lavori”.  

Il film e il libro, che prendono il titolo dal “silenzio” di Dio, ripercorrono una vicenda antica di quasi quattro secoli, ambientata in Giappone al tempo della violenta persecuzione contro i cristiani iniziata nel 1587 con lo shogun (generale) Hideyoshi e continuata poi dallo shogun Tokugawa, a partire dal 1614. Il cineasta newyorkese di origini siciliane, durante la lavorazione del film, si è avvalso anche della consulenza storica dei padri gesuiti David Collins, storico presso la Georgetown University, e Shinzo Kawamura, della Sophia University. In quelle persecuzioni del XVII secolo, un gran numero di fedeli e molti missionari e sacerdoti locali morirono martiri, spesso in seguito a terribili torture.  

La figura intorno a cui ruota il film è quella del gesuita portoghese Cristovão Ferreira, “colonna” delle missioni cattoliche in Giappone, che inviava in Europa lettere fiammeggianti di celebrazione dei martiri, raccontando di supplizi indicibili capaci di «far venir meno il più forte degli uomini, se non fosse stato per la grazia di Dio». Fino a quando non si sparge la notizia che proprio lui, sottoposto alle torture, ha rinnegato la fede cristiana e è diventato un apostata. Due suoi giovani allievi gesuiti, il portoghese Sebastião Rodrigues e lo spagnolo Francisco Garupe, avendo come guida la controversa figura di Kichijiro – un giapponese convertito, fuggito a Macao dopo aver anche lui apostatato – si recano fino in Giappone con la missione di verificare se le notizie sconvolgenti sul loro antico maestro sono vere, o se si tratta di dicerie messe in circolo ad arte dai giapponesi o dagli olandesi per fiaccare lo spirito dei missionari cattolici e dei loro fedeli. Appena arrivati, i due gesuiti europei vengono letteralmente risucchiati dalle tribolate vicende delle comunità cristiane giapponesi su cui imperversa la fase cruenta della persecuzione. Garupe morirà martire, mentre il protagonista del romanzo e del film,Sebastião Rodrigues, finirà anche lui per diventare un apostata, vivendo per decenni in una sorta di residenza coatta, fino alla morte.  

I ritmi a tratti concitati e le frenesia cupa che dominano buona parte del film rendono senza sublimazioni agiografiche – e con passaggi mozzafiato, come sono tutti quelli dedicati alle tante forme di supplizio a cui sono sottoposti i poveri cristiani giapponesi – l’angoscia di una sofferenza inflitta e subita senza motivo, dove il momento atroce del dolore viene vissuto da martiri rappresentati come sconfitti, vittime di un sacrificio accolto dall’apparente silenzio di Dio. Proprio nell’incalzante sequenza di vicende e scenari dove tutto sembra procedere verso la rovina, Scorsese, seguendo con fedeltà e originalità Shusaku, sparge nel film dettagli e particolari che possono interpellare anche oggi le realtà chiamate a manifestare più esplicitamente la vocazione missionaria della Chiesa. Perché fanno intravedere sine glossa la sorgente viva e sorprendente da dove può fiorire la missione che Cristo consegna ai suoi nel Vangelo; e anche il tratto genetico che, da sempre e per sempre, distingue la missione affidata alla Chiesa da tutte le forme di propaganda ideologica, religiosa o culturale.  

Su alcuni di questi passaggi e snodi-chiave, conviene soffermarsi. 

Un tesoro da diffondere 

Quando i due gesuiti in cerca del loro maestro-apostata giungono in Giappone, Scorsese descrive con dettagli commoventi la gioia dei cristiani “nascosti”, resi felici dal fatto di poter finalmente avere di nuovo tra loro dei sacerdoti che possono celebrare l’eucaristia e assolverli dai peccati. La loro “fame” di sacramenti, e anche di immagini e oggetti sacri, esprime la concretezza di una fede percepita come promessa e iniziale esperienza di salvezza, incontrata dentro una condizione umana atroce, fatta di miseria e cattiverie subite. Quando due giovani sposi fanno battezzare il loro bambino, chiedono pieni di letizia ai due missionari se in quel modo il loro figlio è entrato in Paradiso: vengono subito “corretti” dai due gesuiti, perché giustamente la condizione terrena, ferita dal dolore e dalla cattiveria degli uomini, non è il Paradiso. Nondimeno, con la loro domanda semplice e vibrante di lieta speranza, i due genitori cristiani – poveri analfabeti ignari dei trattati di escatologia – manifestano e confessano di camminare nella stessa fede degli apostoli, che riconosce nel battesimo l’inizio dell’eterna beatitudine promessa da Cristo.  

Nelle scene che descrivono il loro ministero sacramentale, offerto di notte e in clandestinità ai “cristiani nascosti”, i due giovani gesuiti assaporano la grandezza della missione a cui sono stati chiamati. Pensano di poter essere loro a custodire e far crescere il seme gettato da altri. Nel romanzo, Shusaku Endo delinea con cenni brevi e efficaci che a attirare alla nuova fede i poveri contadini e pescatori delle isole giapponesi ha contribuito anche la dolce carità dei missionari che li hanno battezzati, i primi da cui i neofiti si sono sentiti trattati con dignità di uomini e di donne. Monica, una delle tante martiri della vicenda, descritta nel romanzo come una povera donna con un odore disgustoso, «pronunciava il suo nome cristiano come fosse l’unico ornamento che possedesse al mondo». 

Il Silenzio di Dio 

Tutto il film – e tutto il libro – vibrano del disorientamento provocato dalla persecuzione che si scatena proprio contro quelli che secondo la promessa del Vangelo sono i beati e i prediletti. Rodrigues non si da pace di come sia possibile che tanta sofferenza debba colpire proprio le persone più deboli, solo perché hanno creduto alla promesse di Cristo. A quelle vite miserabili e oppresse, l’incontro con Cristo sembra aggiungere solo ulteriori sofferenze e paure. Come il Signore può permettere questo? Come possono essere imposti carichi così pesanti su spalle così fragili? Alle domande che lui gli rivolge, Dio sembra non rispondere, «impenetrabile come il mare». Nei metodi sofisticati di supplizio, tutti concepiti per prolungare il più a lungo possibile l’agonia dei martiri, anche la crudeltà dei carnefici assume tratti oltre l’umano. E a guidare le torture è – come riferisce nel romanzo Shusaku Endo, e come spesso è accaduto e accade nella vicenda della Chiesa – un battezzato, il sofisticato e perfido “inquisitore” Inoue, che quando la missione cattolica fioriva rigogliosa si era fatto cristiano «per migliorare la sua posizione».  

Terre e popoli “incompatibili” con il cristianesimo? 

La strategia persecutoria di Inoue punta a trasformare in apostati i sacerdoti fatti prigionieri. Così crede di «tagliare le radici» dell’albero del cristianesimo che ha attecchito in terra giapponese, in modo da spingere anche le moltitudini di contadini e pescatori ignoranti a rinunciare alla propria fede. Ma tale disegno prende le mosse da un teorema: la fede cristiana non può incontrare il Giappone. È destinata a priori a non fruttificare, a rimanere un corpo estraneo nelle isole del Sol Levante. In questo modo, la vicenda narrata da Shusaku Endo e ora da Scorsese fa i conti anche con l’ombra rimossa di tante dottrine e riflessioni missiologiche: il sospetto vertiginoso che ci siano terre, contesti e persone dove il seme dell’annuncio evangelico, per sua stessa natura, non può e non potrà mai attecchire. Ambiti tagliati fuori a priori dalla possibilità di incontrare il fatto cristiano. Tale sospetto può erodere dall’interno ogni approccio fiducioso nelle possibilità che si aprono alla testimonianza evangelica, quando esso si affida in toto solo e soltanto ai pur necessari processi di inculturazione. Ma alimenta alla radice anche le fantasie di opposta fattura, quelle secondo cui “l’espansione” del cristianesimo può avvenire solo attraverso assimilazioni/colonizzazioni di carattere culturale.  

Ferreira, che prima di apostatare ha svolto un grandioso lavoro apostolico nelle isole durato vent’anni, quando deve spingere anche il suo confratello Rodrigues all’apostasia, insiste molto sul teorema che in Giappone «la nostra religione non mette radici», e che anche quando l’opera apostolica andava a gonfie vele e i feudatari locali facevano a gara a costruire chiese e aprire le porte ai missionari, in realtà i giapponesi «non pregavano il Dio cristiano», perché «Dio lo hanno distorto per adattarlo al loro proprio concetto di Dio». Anzi – aggiunge perentorio Ferreira nel romanzo di Shusaku Endo – «i giapponesi fino a oggi non hanno mai avuto il concetto di Dio, e non lo avranno mai», perché «non sono capaci di pensare un concetto di Dio separato dall’uomo. Non riescono a concepire una esistenza che trascenda quella umana».  

La Chiesa dei lapsi 

Oltre alla teorizzata “inabilità genetica” di realtà umane individuali o collettive a incontrare il Vangelo, la vicenda che ha affascinato Scorsese guarda in faccia – entrando nelle pieghe più intime del cuore del protagonista Rodrigues – anche le tante possibilità di fallimento missionario, la dissipazione che sembra disperdere nell’oblio anche le attestazioni più preziose e commoventi della dedizione incondizionata e senza misura all’annuncio del Vangelo. I doni di grazia dei sacramenti, elargiti da padre Fernandes e del suo confratello Garupe, ricadono su un’umanità che rimane fragile, continua a cadere e a tradire, rappresentata in particolare da Kichijiro, personaggio fondamentale del romanzo e della sua trasposizione cinematografica: un ubriacone infingardo e servile che entra nella vicenda già da apostata, e durante il procedere della storia continuerà a compiere nuovi atti scandalosi di tradimento e apostasia, fin a rendersi complice per viltà della cattura dello stesso padre Rodrigues. Eppure, per tutto il corso della storia, il gesuita protagonista continua a esaudire le sue richieste di confessarsi e di ricevere il perdono dopo aver tradito. Kichijiro sarà l’unico a chiedere e a ricevere in confessione l’assoluzione dei peccati da Rodrigues anche quando questi si trova già nella sua condizione finale di apostata e prigioniero. Così, Rodrigues attesta la sovrabbondanza inesauribile e la sorgente misteriosa del perdono di Cristo, della quale lui stesso farà esperienza, fino alla fine.  

Guardando alle reiterate cadute e ai tradimenti del debole Kichijiro, diventa facile ricordare e riconoscere che Gesù stesso ha affidato la sua promessa alle mani e ai cuori di uomini fragili e capaci di rinnegarlo, come capitò anche all’apostolo Pietro. Partito con la baldanza del missionario chiamato a custodire e difendere la pianta fragile del cristianesimo in terra giapponese, lo stesso padre Rodrigues, quando rimane paralizzato davanti ai suoi poveri amici messi a morte, tocca con mano le sue impotenze, la sua insufficienza, i suoi tradimenti. Fino a quello dell’apostasia. Il più scandaloso.  

Incontrare Cristo nell’abisso dell’apostasia 

Eppure, proprio scendendo nell’abisso dell’apostasia, Rodrigues incontra per sempre il volto e l’abbraccio di Cristo. I persecutori vogliono costringerlo a apostatare col ricatto: gli ripetono che se compirà il “gesto formale” di calpestare la fumie, la tavoletta sacra con l’immagine di Cristo, potrà salvare i suoi poveri amici dalla morte attraverso il supplizio del pozzo (dove i condannati venivano infilati in un pozzo a testa in giù, mentre da piccole ferite aperte dietro l’orecchio le gocce di sangue uscivano una a una, procurando una terribile e lunghissima agonia). Anche Ferreira, per spingere il suo ex giovane allievo a compiere il gesto sacrilego, alterna parole dure e espressioni suadenti («Se tu apostati, quei poveretti saranno tolti dal pozzo. La sofferenza verrà loro risparmiata. Ma tu rifiuti di farlo perché hai il terrore di tradire la Chiesa. Hai il terrore di diventare uno di quelli che sono considerati la feccia della Chiesa, come me. Tu ti consideri più importante di loro. Ti preoccupi della “tua” salvezza….(…)». Ma a convincere Rodrigues a compiere l’atto sacrilego non sono né Ferreira, né la pietà per i suppliziati, nè i carnefici agli ordini di Inoue: è Gesù stesso, che dalla tavoletta preparata per essere calpestata dai piedi di Rodrigues gli parla, lo invita a fidarsi di Lui, e a mettere il suo piede sulla faccia del suo Redentore, con parole che toccano in maniera vertiginosa il misterioso e imparagonabile dinamismo della salvezza operata dal Figlio di Dio: «Calpesta! Calpesta! Più di chiunque io so quanto pieno di dolore sia il tuo piede. Calpesta! Per essere calpestato dagli uomini, io sono venuto in questo mondo. Per condividere il dolore degli uomini, io ho portato la croce».  

Nel momento stesso in cui lo rinnega, Rodrigues si affida tutto a Cristo stesso, senza poter più rivendicare alcun merito per sé. Con questa immagine potente e vertiginosa, i due artisti moderni, Shusaku e Scorsese, intuiscono e suggeriscono anche che ogni proiezione missionaria della Chiesa che pretenda di realizzarsi in regime di auto-sufficienza, senza affidarsi istante per istante ai gesti di grazia di Cristo, è destinata alla lunga a trasformarsi in orpello di potere e di auto-occupazione per apparati clericali. Perché nessuna “animazione missionaria” può pretendere di portare frutti perduranti di salvezza per forza propria.  

Rodrigues, diventato l’Apostata – come si divertono a canzonarlo anche i bambini di Nagasaki – finisce la sua vita da sconfitto in una prigione dorata, la «residenza dei cristiani», con un nome e una moglie giapponesi impostigli dai suoi persecutori. Ma nei lunghi decenni di vita reclusa, scandita dalle periodiche verifiche realizzate dai suoi carcerieri per controllare che lui e chi gli è vicino perseverino nel rinnegamento della fede cristiana, vive nell’intimo del suo cuore la sua segreta vittoria: non potrà più celebrare messa, leggere il Vangelo, pregare a alta voce. Ma diversi particolari (che qui non vengono svelati, per non “rovinare” l’eventuale visione del film-capolavoro) lasciano intuire che Cristo stesso ha continuato fino all’ultimo a consolare e confortare il cuore del prete apostata, cristiano “nascosto”. L’amore perseverante di Cristo ha custodito anche la vertiginosa perseveranza finale, dissimulata ma reale, del gesuita Rodrigues, “Sacerdos in aeternum”.  

Anche fuori dalle vicende ripercorse dall’arte di Scorsese, il segno storicamente visibile di quella “vittoria” rimasta nascosta nel cuore di Rodrigues e di tanti battezzati giapponesi saranno le comunità di “cristiani nascosti” che i missionari europei ritrovarono nelle isole del Giappone, quando vi poterono tornare, più di un secolo dopo. Quelle di cui ha parlato tante volte Papa Francesco, dedicando loro anche una Lettera, nel marzo 2015, per mostrare che le “radici” della Chiesa non possono essere tagliate, quando sono nutrite dalla sorgente viva della grazia di Cristo: 

«Erano sopravvissuti con la grazia del loro Battesimo! Questo è grande: il Popolo di Dio trasmette la fede, battezza i suoi figli e va avanti. E avevano mantenuto, pur nel segreto, un forte spirito comunitario, perché il Battesimo li aveva fatti diventare un solo corpo in Cristo: erano isolati e nascosti, ma erano sempre membra del Popolo di Dio, membra della Chiesa». (Papa Francesco, Lettera all’inviato speciale alla celebrazione del 150° anniversario della scoperta dei “Cristiani nascosti del Giappone”, Nagasaki, 14-17 marzo 2015) 

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