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Birmania, la crisi dei rohingya arriva in Vaticano

Vatican Insider - pubblicato il 10/02/17

Perseguitati, discriminati, emarginati. Apolidi. I rohingya sono i reietti del nostro tempo. Una minoranza etnica di religione islamica, insediata nella Birmania occidentale, senza diritti e senza cittadinanza, che ha attratto l’attenzione di Papa Francesco. Il Pontefice li ha citati nella Giornata mondiale contro la tratta come caso esemplare di «migranti, rifugiati, sfruttati, che soffrono tanto, cacciati via»

Gli occhi del Papa si sono posati su una porzione di umanità attualmente al centro di una crisi che tiene banco nella comunità internazionale e interessa le Ong e la Chiesa birmana: si denuncia l’immane sofferenza di oltre un milione di persone, cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica e sforzandosi di organizzare l’opera umanitaria. 

L’ultimo rapporto, pubblicato il 3 febbraio, dall’Alto Commissariato Onu per i diritti umani riferisce brutalità e violenze delle forze di sicurezza birmane nello stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh, dove risiedono i rohingya. L’offensiva, secondo le ricostruzioni, sarebbe la reazione all’uccisione di nove militari avvenuta nell’ottobre scorso da parte i presunti «ribelli». 

Secondo il documento Onu, oltre mille civili sono stati uccisi nella regione a nord di Maungdaw, mentre mass-media e organizzazioni internazionali erano tenute a debita distanza durante di autentiche operazioni di «pulizia etnica»

Il rapporto, compilato grazie alle testimonianze dei profughi fuggiti in Bangladesh, racconta di esecuzioni sommarie di uomini, donne, bambini e neonati, spari verso i civili in fuga, stupri, vessazioni, violenze e atrocità come interi villaggi dati alle fiamme. Atti che Ong come Human Rights Watch hanno definito «crimini contro l’umanità» e «genocidio»

Deplorando «tali disumanità e barbarie», il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, ha definito i fatti «profondamente inquietanti». «L’odio verso persone di diversa etnia e religione si è intensificato ed ha raggiunto un livello allarmante. Quello che è successo nello stato di Rakhine deve essere fermato una volta per tutte», ha aggiunto, notando che «tali barbarie possono far ricadere il paese – solo di recente uscito da una feroce dittatura militare – in giorni oscuri» e «compromettere il suo fragile percorso di democrazia». 

Un campanello d’allarme per la nazione che, aggiunge Bo, «sta attraversando uno dei momenti più delicati della sua storia»: «Negli ultimi cinque anni, il Myanmar ha vissuto molti cambiamenti positivi ed è divenuto un Paese più aperto. Si tratta di un’alba di speranza», rileva, citando cambiamenti nell’economia, nei media, nella società, nei meccanismi democratici, ma che «rischia di diventare un’alba illusoria». 

Ricordando anche la situazione di conflitto e le azioni militari negli stati settentrionali a maggioranza cristiana, il cardinale chiede al governo birmano – oggi appannaggio della Lega Nazionale per la Democrazia, il partito della storica leader Aug San Suu Kyi – di «porre fine all’offensiva militare contro i civili nello stato Rakhine e negli stati Kachin e Shan», auspicando il libero accesso in quei territori ad agenzie umanitarie, mass-media e osservatori dei diritti umani

Bo invita l’esecutivo birmano a «operare a fianco della comunità internazionale per indagare sui reati denunciati dalle Nazioni Unite» e la comunità internazionale a «essere vigile e a sostenere l’attuale governo democratico birmano». 

Intanto migliaia di rohingya sono fuggiti in Bangladesh: il governo birmano, infatti, non li considera cittadini ma «immigrati illegali», privandoli di ogni diritto. Uno status di «discriminazione istituzionalizzata» che dura da decenni, ma negli ultimi anni è andato aggravandosi: gruppi nazionalisti buddisti oggi che ne chiedono l’espulsione dallo stato. 

Secondo l’Onu, centomila rohingya hanno abbandonato il paese, trovando scampo in nazioni confinanti, e circa 22mila persone lo hanno fatto solo nelle ultime settimana, dopo l’offensiva dell’esercito birmano. E altri 150mila civili rohingya si trovano in campi profughi.

La Caritas – che in Birmania si chiama Karuna – è impossibilitata ad agire: «Nessuna organizzazione di stampo religioso può entrare nella zona e solo ad alcune Ong internazionali è consentito portare assistenza umanitaria», ha riferito all’agenzia vaticana Fides Nereus Tun Min, prete birmano e responsabile Caritas nella diocesi di Pyay, che abbraccia il territorio dei rohingya. «Nostro malgrado, siamo solo spettatori di questa crisi. Il mancato riconoscimento da parte dello stato è il principio di ogni altro disagio». 

Una legge del 1982, infatti, nega ai rohingya la cittadinanza, impedisce loro di possedere terreni e di viaggiare senza permesso, impone al massimo due figli per famiglia. Dall’urgente modifica di tale provvedimento può ripartire il governo birmano, 

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