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L’ombra del business sulla persecuzione dei cristiani

Vatican Insider - pubblicato il 05/02/17

Hatune Dogan è una suora siro-ortodossa, originaria della Turchia ma residente da lungo tempo in Germania. Il suo nome fece il giro del mondo alla fine 2013, quando lei raccontò che in Siria i jihadisti sgozzavano cristiani e confezionavano bottigliette col loro sangue, da rivenderle in Arabia Saudita, al prezzo di 100mila dollari l’una a non meglio identificati «radicali fanatici» che lavandosi le mani con quel sangue «credono di prender parte a questo sacrificio reso a Allah»

La sparata della suora fu rilanciata in tutto il mondo – senza uno straccio di verifica – dalla rete globale arruolata a tempo pieno sotto la bandiera della “cristianofobia”, che la impose come “notizia di buona fonte” attraverso il martellamento dei social network. Così acquistò ancora più notorietà anche la Hatune Foundation, l’organismo fondato dalla stessa suora come un ente benefico impegnato a salvare poveri e bisognosi in varie parti del mondo. Fino a quando, alcuni giorni fa, il Patriarcato siro ortodosso è intervenuto con un comunicato ufficiale con cui ha dichiarato nero su bianco che la Hatune Foundation «non è affiliata alla Chiesa siro ortodossa, né rappresenta in alcun modo lo stesso Patriarcato siro ortodosso». Quell’organismo – ha rimarcato il comunicato – opera «in modo del tutto autonomo, senza il riconoscimento o il consenso della Chiesa ortodossa siriaca e dei suoi gerarchi in Europa e in tutto il mondo».  

Il Patriarcato siro ortodosso ha voluto far sapere che «non sostiene direttamente o indirettamente questa organizzazione, né promuove attivamente le sue raccolte di fondi o altre attività». La suora-manager dell’assistenza umanitaria è una specie di eroina per i circuiti politico-mediatici più mobilitati a richiamare la persecuzione dei cristiani come ingrediente essenziale delle loro campagne contro l’islam. In uno dei siti islamofobici che la esaltano, suor Hatune viene definita «la madre Teresa del nostro tempo». Nei suoi interventi, la religiosa identifica senza riserve il jihadismo sanguinario dell’autoproclamato Stato Islamico (Daesh) e l’islam in quanto tale. «L’islam è l’Isis. Chiunque dice cose diverse è un bugiardo» ha affermato suor Hatune in un’intervista rilasciata quasi un anno fa a CBN News, legata al network mediatico (Christian Broadcasting Network) fondato dal tele-predicatore Usa Pat Robertson.  

Da quella stessa rete televisiva, lo scorso 27 gennaio, il presidente Usa Donald Trump ha riconosciuto come sua «priorità» la concessione dello status legale di rifugiato alla categoria dei “cristiani perseguitati”, nelle stesse ore in cui metteva a segno l’ordine esecutivo di chiusura delle frontiere statunitensi ai cittadini di sette Paesi a maggioranza islamica. Non è la prima volta che il Patriarcato siro ortodosso e altre Chiese del Medio Oriente prendono le distanze da organizzazioni che raccolgono fondi e organizzano mobilitazioni in Occidente ostentando come “ragione sociale” la difesa e il sostegno nei confronti dei «cristiani perseguitati». Lo scorso giugno, una analoga presa di distanza dello stesso Patriarcato siro ortodosso aveva riguardato organismi umanitari come la Slibo Auryoyo, la “Croce Siriaca”.  

Nel gennaio 2014, l’arcidiocesi armeno-cattolica di Aleppo aveva sconfessato pubblicamente l’iniziativa di raccolta fondi, lanciata online da un sacerdote con la motivazione di sostenere «attività pastorali, educative e assistenziali a vantaggio anche delle famiglie di profughi provenienti da Aleppo e Deir-al-zor» che avevano trovato rifugio nella città di Qamishli.  

Al di là del singolo caso, il fenomeno delle organizzazioni e dei singoli che organizzano campagne di fundraising sotto l’insegna dell’aiuto ai cristiani perseguitati sta dilagando in tutte le chiese e le comunità cristiane. L’accenno alle sofferenze dei cristiani non cade nel vuoto, accende adesioni commosse e solidarietà generose. Ma alcune personalità immerse nei travagli che investono le Chiese mediorientali segnalano che anche il vorticoso meccanismo della raccolta di risorse per i cristiani del Medio Oriente rischia di diventare un ulteriore fattore di alienazione e distorsione nella vicenda dei battezzati di quelle terre: «Ci sono ecclesiastici “da aeroporto”» racconta a Vatican Insider il cattolico siriano George Hallak, direttore dell’Accad Institute, scuola di formazione professionale sopravvissuta a stento alle convulsioni del conflitto siriano, «che vanno sempre in giro per il mondo a raccogliere soldi, che poi utilizzano per costruire piccoli potentati e legare a sé le persone, fuori da ogni controllo e senza avere nessun rispetto di realtà come la nostra, che lavorano con fatica e non hanno accesso alle stesse risorse».  

Forse anche a questo voleva alludere il Presidente libanese Michel Aoun, quando lo scorso 16 gennaio ha incontrato capi e rappresentanti delle Chiese del Medio Oriente, e a loro ha detto che mettere in forse la permanenza dei cristiani in Medio Oriente non sono solo le bombe, i cannoni o le incursioni aeree, ma anche il rischio di essere contagiati da una certa «sete di denaro». Gli fa eco Antoine Audo, il vescovo caldeo di Aleppo che pure, come Presidente di Caritas Siria, impegna molto del suo tempo alla distribuzione di beni e risorse a favore dei rifugiati e delle vittime della guerra: «Mi preoccupa questo uso dei casi di persecuzione come strumento di propaganda per raccogliere soldi. Come cristiani, desideriamola giustizia per tutti, e quando ci sono persecuzioni dei cristiani, le raccontiamo. Ma non usiamo il riferimento alle sofferenze dei cristiani per accusare gli altri o per alimentare i nostri interessi. Questi fenomeni rappresentano un vero pericolo, anche per le Chiese del Medio Oriente». 

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