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Il terremoto di San Giovanni Crisostomo

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L'Osservatore Romano - pubblicato il 03/02/17
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Come riscoprire nel male le ragioni della fededi Lucio Coco

 

I terremoti erano molto frequenti ad Antiochia. Crisostomo fa riferimento a essi più volte, per esempio nelle Omelie sulle statue (iii, 7) e nei Discorsi su Lazzaro (vi, 1-2), entrambi appartenenti al periodo del presbiterato nella città siriana. Oltre a questi passaggi, per così dire incidentali, si conserva del «Bocca d’oro» un’intera omelia dove il tragico avvenimento è sottoposto a una attenta lettura spirituale. Generalmente essa viene rubricata con il titolo «Sul terremoto (De terrae motu — cpg 4366)» anche se, più correttamente, l’intestazione è «Omelia dopo il terremoto (Metà tòn séismon)». «La città — dice il Padre antiocheno — è stata rasa al suolo» ma questa distruzione, paradossalmente, è servita a ricostruire i costumi e la fede dei suoi concittadini. Proprio in questa trasformazione vanno cercati il profitto, il vantaggio o, per usare il lessico crisostomico, il progresso («próodos») del terremoto.

L’affermazione sembrerebbe paradossale: vedere un avanzamento laddove di fatto esistono solo distruzione e macerie. La realtà sembra ampiamente contraddire la ragione («lógos») del suo discorso. Crisostomo lo sa, lui che più volte ha riflettuto sulla incomprensibilità di Dio e sull’inscrutabilità dei suoi disegni, eppure anche in questo caso egli non si astiene dal parlare di benevolenza [«philantropía»] di Dio a rischio di far apparire irragionevole il suo discorso, che in greco è ancora «lógos». Vuole forse disorientare chi è venuto ad ascoltarlo? Dove vedere questa «benignità» divina? Di fronte a questa aporia, il futuro patriarca di Costantinopoli ridà la parola ai fatti, proprio a quei fatti che sembrerebbero negare ogni ragione e anche la Ragione — il «Lógos» — di tutto. «Io sto in silenzio — dice il sacerdote —, parlano le fondamenta»: ovvero a parlare sono proprio quelle fondazioni che il sisma a riportato alla luce e che la luce non avrebbero mai dovuto vedere. Giovanni Crisostomo continua a cavalcare il filo terribile del paradosso: «Io taccio e il terremoto emette una voce più chiara di una tromba e dice: “Sono venuto non per seppellirvi ma per fortificarvi”».
È il tema eterno del dolore che ammaestra, del «páthei máthos»: «Questo dice il terremoto — sono ancora le parole del Padre della Chiesa — e fa uscire una simile voce: “Vi ho spaventato non per rattristarvi ma per rendervi più attenti”». Laddove gli altri, il senso comune, il male personale e della storia rappresenterebbero un’occasione solida per negare Dio, il Crisostomo legge e interpreta questo triste avvenimento come un’opportunità per fare ritorno a Dio, per fare di nuovo esperienza della fede. Nell’omelia infatti segue una descrizione del comportamento degli antiocheni e viene sottolineato quanto essi erano mutati dopo il dramma. Naturalmente noi non sappiamo se ciò fosse accaduto realmente o se questo è solo un artificio retorico del Crisostomo per ricordare quali sarebbero gli atteggiamenti corretti di fronte al dolore e alla sofferenza. Le veglie, la salmodia, la preghiera questo il terremoto riporta alla luce nella città di Antiochia; così come aveva fatto con le sue fondazioni il sisma riscopre i fondamenti della fede, procurando un secondo terremoto, stavolta di carattere morale, in cui a essere buttate giù e a essere abbattute sono le passioni abiette e vili, la vanagloria, l’avarizia, la superbia umana: «Tutte queste cose sono andate via, strappate con più facilità di una ragnatela e sono state rese vane più dei fiori di primavera», ricorda puntualmente il Crisostomo a chi era venuto ad ascoltare la sua predica in chiesa.

Nei citati Discorsi su Lazzaro il tema è analogo e ritorna anche l’immagine della tela del ragno: «La città è divenuta la tomba comune di tutti, tomba improvvisata, non costruita dalle mani degli operai ma della disgrazia. Dov’è la ricchezza? Dov’è l’avidità? Vedete come tutto è più inconsistente di una ragnatela?» (vi, 1). Eppure il passaggio decisivo del «lógos» di Crisostomo — la sua ragione — non è nella conferma della «vanitas vanitatum», della inconsistenza del tutto, ma nell’invito a riscoprire nel male le ragioni della fede, a percorrere al contrario la via troppo facile dell’incredulità e nella fatica di questo andare a ritroso, controcorrente, riaffermare l’evidenza di Dio. «Dio si è manifestato» dice a un certo punto, verso la fine dell’omelia, Giovanni Crisostomo. Questo è dunque importante: cogliere soprattutto nel dolore l’epifania di Dio, riconoscerne il suo mostrarsi e attorno a questo baluginio, talvolta incerto, talvolta al limite della visibilità, ritrovarsi nuovamente in assemblea, in «Ecclesia», come egli stesso rileva guardando compiaciuto quella folla di gente che venendo in chiesa indirettamente aveva già dato al dramma che le era toccato vivere la sua autentica risposta di fede.

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE