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Quei vescovi in cerca di cristiani nella giungla del Laos

Vatican Insider - pubblicato il 02/02/17

Dopo averli incontrati, Francesco ha raccontato ai suoi collaboratori di aver provato vergogna: «Loro erano il centro, io la periferia», ha confidato il Pontefice, «Questi vescovi hanno sofferto continuando a testimoniare la loro fede con gioia, in piccole comunità. Alla fine dell’udienza mi sono sentito… vergognato». Tito Banchong e Louis-Marie Ling sono vescovi nel Laos e vivono in comunità delle quali si sa e si parla pochissimo. La loro storia ha dei tratti in comune con quella vissuta secoli fa dai «cristiani nascosti» giapponesi, tornata sotto i riflettori in queste settimane grazie al bel film «Silence» di Martin Scorsese. La Stampa li ha incontrati per raccontarvela. 

«Cercavo i cristiani uno ad uno»

Il vescovo Banchong, che oggi guida la comunità dei battezzati a Luang Prabang, nel nord del Laos, nel 2000 è andato alla ricerca dei fedeli porta a porta. Per dodici anni è stato l’unico prete in un territorio più esteso dell’Italia meridionale. Ha cercato «uno per uno» i battezzati sopravvissuti che da 25 anni – dopo l’avvento al potere del movimento comunista Pathet lao, nel 1975 – non avevano più chiese, sacramenti, né immagini sacre. «Avevano conservato la memoria della fede solo nel cuore», ci dice. Appresa la notizia del ritorno di un prete cattolico a Luang Prabang, in molti sono scesi dalle montagne o giunti dai villaggi remoti per farsi benedire e per confessare la loro fede rimasta intatta. In 17 anni di infaticabile lavoro pastorale, compiuto con mitezza e fiducia, il 69enne Banchong ha rianimato la comunità, battezzato, visitato le famiglie, portato il vangelo nei piccoli villaggi sulle alture tra i tribali hmong, khmou, akha. 

I martiri del Laos

Oggi ha la cura pastorale dei tremila cristiani che vivono la fede un contesto a prevalenza buddista e animista, segnato da una burocrazia di tipo socialista che per anni è stata soffocante – il vescovo doveva chiedere il permesso per ogni piccolo spostamento – e che nell’ultimo quindicennio ha visto finalmente un graduale allentamento della pressione sulla libertà religiosa. Negli ultimi tempi, poi, con l’apertura economica e politica del Laos e l’ingresso nello spazio dell’Asean, l’Associazione delle nazioni del sudest asiatico, tutto è divenuto più facile e una festa religiosa pubblica non è più un tabù. La recente cerimonia di beatificazione dei martiri laotiani, 17 tra missionari, preti e fedeli indigeni, tenutasi a dicembre nella capitale Vientiane davanti a oltre settemila fedeli – impensabile fino a qualche ano fa – dà la cifra di un cammino promettente. Inoltre l’aiuto di preti e suore da Thailandia, Vietnam, Cambogia potrà aiutare una Chiesa che conta in tutto una ventina di sacerdoti: i cittadini dei paesi membri dell’Asean ora non necessitano del visto. 

Prete-soldato

«Dio è sempre stato con noi, in questo angolino del mondo, anche nelle prove», ripete Banchong con la gioia in volto. Il vescovo è ancora emozionato per l’incontro con Papa Francesco: «Per noi è un padre misericordioso». E ricorda gli oltre cinque anni trascorsi in prigione tra il 1976 e il 1986 come un «lungo ritiro spirituale». Un tempo in cui, senza poter celebrare messa, «il mio corpo era il corpo di Cristo e il mio sangue era il sangue di Cristo». Il governo aveva espulso tutti i missionari stranieri e i pochi preti laotiani hanno sopportato condanne gratuite del regime comunista. Dopo i primi tre anni dietro le sbarre al giovane prete Tito viene imposta una pena perfino peggiore: arruolarsi nell’esercito. «Ho vegliato e pregato una intera notte, poi ho accettato di diventare un soldato come volontà di Dio», ci racconta. «Mi occupavo dell’approvvigionamento del cibo per le truppe e potevo muovermi liberamente, grazie alla divisa. Era un’opportunità per vistare i cristiani e per fare catechismo indisturbato», spiega con un sorriso, condito da un mix evangelico di candore e astuzia. «Oggi – afferma Banchong – ai preti dico: non abbiate paura, fate la volontà di Dio, così Lui agirà in questa comunità e nel nostro Paese». 

Benevoli con i carcerieri

Un bel giorno Louis-Marie Ling, altro prete venuto dalle montagne del Nord, gli fa visita nel carcere di Vientiane. Subirà la sua stessa sorte, rinchiuso nella medesima prigione. Oggi Ling è vescovo a Paksè, nel centro del paese. Anche lui ricorda quegli anni in cella senza rivendicazioni o lamenti. «Ero perfino felice di poter vedere Tito. Ricorso il Natale del 1985 quando potemmo incontrarci e pregare insieme il Dio-con-noi», racconta. «Fu un tempo di sofferenza materiale, dimagrii molto, ma non spirituale: non potevamo celebrare messa ma eravamo noi stessi un sacrificio vivente gradito a Dio. Quello che ogni battezzato è chiamato a essere nella vita». E in carcere la benevolenza verso le guardie «significava per noi vivere e annunciare il Vangelo», ricorda Ling, oggi alla guida di 15mila fedeli. La solenne celebrazione dei martiri, per lui, è stata «un vero miracolo». La piccola comunità cattolica in Laos (meno dell’1% della popolazione), osserva, «è un’opera dello Spirito Santo». Il futuro, dicono entrambi i vescovi ex carcerati, è pieno di speranza. 

La gloria della Chiesa

Guardandoli negli occhi e avendo presente le loro storie, lo scorso 30 gennaio, nella messa a Santa Marta, Papa Francesco ha detto: «La più grande forza della Chiesa oggi è nelle piccole Chiese, piccoline, con poca gente, perseguitati, con i loro vescovi in carcere. Questa è la nostra gloria oggi, questa è la nostra gloria e la nostra forza oggi». 

Questo articolo è pubblicato nell’edizione odierna della Stampa

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