Non c’è niente come un messaggio istruttivo e provvidenziale proprio prima che suoni il telefonoLa maggior parte dei giorni mio figlio, che ha la sindrome di Down, si inserisce così nella famiglia e nelle sue attività che mi dimentico di considerare la sua disabilità. È un bambino – un fratello, un figlio. Noi facciamo colazione, ci laviamo, ci vestiamo, stiliamo liste di cose da fare. I bambini fanno i compiti. Un adolescente va a correre, un’altra progetta il pomeriggio al telefono. Io faccio tutto quello che fanno le mamme.
Ma Paul sta crescendo. Quest’anno compirà 9 anni, e con l’età è diventato indipendente, ovviamente. Ma non sicuro. Sa cosa bisogna fare per preparare un panino, versare una bibita e uscire fuori. Non può fare niente di tutto questo senza qualcuno che lo assista, ma questa parte non la conosce.
Trascorro buona parte del tempo cercando di tenerlo fuori dai guai, come un angelo custode o un cane San Bernardo.
Quando andiamo al parco, passo tutto il tempo preoccupandomi del fatto che si allontani e pensando a come farò quando diventerà più alto e più veloce e io invecchierò. Dice “Ciao” a tutti e vuole avvicinarsi a ogni cane. Ho paura che venga morso perché si può far prendere dall’irruenza.
Anche stare a casa mi spaventa. Devo chiudere a chiave delle cose di modo che non ci arrivi. È come avere in giro un bambino piccolo, ma con l’energia, la forza e l’ingenuità di uno grande.
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Non voglio controllarlo o proteggerlo troppo, e allora cerco di dargli delle opportunità per sperimentare il mondo. Lo abbiamo iscritto a lezioni di nuoto. Nel giro di qualche minuto era sfuggito all’istruttore e saltava nell’acqua alta, richiedendo un’operazione di soccorso.
La lezione continua ad essere ribadita: vigila bene, non è al sicuro.
Voglio che Paul diventi in grado di fare le cose, di modo che non sia sicuro a scapito della sua capacità di agire e interagire. Sarebbe più facile smettere di spingerlo, chiuderlo, chiudere tutto e ovattare il suo mondo perché sia protetto, ma un giorno dovrà entrare in un mondo non ovattato, non sicuro, e affrontarlo.
Per questo, di recente ho invitato Paul e sua sorella a fare una piccola escursione. A lui è piaciuta moltissimo, tranne per la foglia che ha gettato da un ponte ed è caduta su una tela di ragno. Avrebbe dovuto cadere nel ruscello, e si è stranito perché non è andata così. E allora ne ha gettata un’altra. Quella ha eluso la tela, mentre la prima è rimasta sospesa.
Guardando la seconda foglia cadere nel ruscello, ho notato che era stata la foglia migliore a non raggiungere l’acqua. La prima foglia avrebbe galleggiato splendidamente se non fosse rimasta intrappolata nella tela di ragno, che ha impedito alla foglia quasi perfetta di bagnarsi, ma le ha anche impedito di andare avanti, di viaggiare oltre quello che poteva fare da sola, spinta dalla brezza estiva.
Una vera parabola davanti ai miei occhi.
Quando siamo tornati a casa, ho pensato a quanto ormai mi preoccupavo per Paul e a quanto fosse pericolosa quella paura – in alcuni casi più di quello da cui cercavo di proteggerlo. Lo avrei intrappolato come il ragno, tenendolo al sicuro, sì, ma impedendogli di crescere. Era il mio bisogno di sicurezza a trattenerlo.
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Questa mattina, la sua insegnante ha chiamato per parlare dell’ipotesi che Paul si sposti in un ambiente meno ristretto, una nuova scuola con più opportunità per farlo diventare autosufficiente. Ho sentito emergere le mie paure e ho ricordato la foglia intrappolata nella tela. Era l’opportunità per provare che ero più interessata al suo benessere che alla mia tranquillità.
So quando lo Spirito Santo sta cercando di farmi capire qualcosa. “Non abbiate paura”, dice Gesù.
E allora ho scritto qualche nota a me stessa per il suo Programma di Educazione Individuale per sottolineare gli obiettivi dell’autosufficienza, e sto esaminando la nuova scuola.
Devo scrivere qualche obiettivo anche per me: quello della fiducia e del non avere paura; l’obiettivo che Paul possa avere una vita, e che sia piena.
[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]
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