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Bonhoeffer e l’azione di Cristo nella Storia

Vatican Insider - pubblicato il 27/01/17

Nella ricorrenza della «Giornata della Memoria», nella certezza che ci sono vite e testimonianze che manifestano la rinnovata presenza di Dio nella storia, parlando a uomini e chiese, intendiamo soffermarci sulla diaconia martiriale del teologo Dietrich Bonhoeffer. Ci interroghiamo in particolar modo su alcuni spunti legati alla sua concreta azione contro il regime nazista. E quindi su come matura in lui la scelta morale di opporsi ad Hitler e su quali sono i criteri e le costanti della sua azione di credente.  

Una vita scandita dalla fede e dalla ricerca della volontà di Dio. Un’esistenza teologica e teologale icona del passaggio di Dio nella storia e del suo desiderio di parlare agli uomini e alle Chiese. Dietrich Bonhoeffer, è tutto questo e anche di più. Personaggio poliedrico, non facile da interpretare perché refrattario ai tentativi di inquadramento, spesso proiezione di chi fa ricerca, e altresì immune da letture o catture ideologicamente orientate. La sua vita è stata un dono alle Chiese e come tale va letta con una metodologia storico-teologica. Passando in rassegna vari scritti, da Bethge a Dumas, da Mancini a Sorrentino e a Gallas, per dirne alcuni, una lettura convincente e ancora attuale, mi è parsa quella di Giuseppe Bellia nel suo «Elogio del Frammento. Invito all’etica conversando con Bonhoeffer», Cittadella, Assisi 1992.  

Comprendere Bonhoeffer e la sua testimonianza non può infatti limitarsi a tratteggiare un profilo seducente e accattivante, ideologico o spiritualizzato ma necessita, a partire dai fatti, di saper leggere l’opera della grazia, quanto lo Spirito ha operato in lui e dice attraverso di lui. Lo studio di Bellia, che si vale della ricca letteratura non solo italiana, va in questa direzione, offrendo spunti illuminanti. 

L’itinerario biografico spirituale del teologo resistente declinato in «vita e tempi», ricostruzione dei fatti e ricerca di quel «paradosso» dell’azione della grazia e dunque del passaggio di Dio; e una vita contrassegnata non da «svolte» ma da «stazioni». E questo perché è lo stesso Bonhoeffer a farlo, in una lettera del 20 luglio del 1944 dopo aver ricevuto la notizia del fallito attentato al Fuhrer, percepisce la sua vita come uno snodarsi di «stazioni verso la libertà» (RR, 448). Stazioni che rinviano a quattro «tempi»: disciplina, azione, dolore e morte. 

Una formazione sapienziale fondata sul primato della Parola e aperta a quella paideia della cultura classica e quella del suo tempo, è alla base dell’educazione del giovane teologo e poi docente che sul finire dell’anno ’30 inizia a maturare alcune forme di resistenza e agire impegnato contro il nazismo.  

Una prima e concreta presa di posizione si registra quando il teologo resistente percepisce la confusione e il disorientamento del suo popolo e vede la sua Chiesa scendere a patti con il regime. Tra le espressioni più significative abbiamo la «Confessione di Bethel» (1933), e poi la «Lega di emergenza dei Pastori», fino ad arrivare al ritmo «conventuale» del seminario di formazione per i pastori della Chiesa confessante a Finkewalde (1935). Al di là delle suggestioni goethiane sul primato dell’azione e gli adagi di Lutero, la risposta di Bonhoeffer si concretizza dunque nella sequela di Cristo, con la quale, proponeva alla Chiesa della «Riforma» il valore biblico del discepolato.  

Come conciliare tutto ciò con il suo ingresso presso i circoli della resistenza e i contatti con i cospiratori (febbraio 1939)? Davvero un’insolita sequela di discepolo che, annota Bellia, «vuole resistere fattivamente allo strapotere delle forze del male contro cui la ragione non può fare nulla» (p. 57). Il regime in effetti stava educando intenzionalmente al male, da qui per Bonhoeffer la sofferta decisione dell’azione che egli vede come risposta alla vita di Cristo. Annota nello scritto Essenza della Chiesa: «(Cristo) sta anche come uomo davanti al fratello nella relativa esemplarità umana. Come tale egli insegna, consiglia, indica certe condizioni» (Ec, 88).  

Centralità cristologica, che in sintonia con quanto affermava Lutero, riprendendo Agostino, vede Cristo come donum et exemplum. Persona modello (Vorbild) e sorgente di ogni scelta. Scriverà ancora Bonhoeffer: «Davanti a lui (Cristo) ognuno decide da solo ciò che egli deve fare» (Sanctorum Communio, 189). La scelta del teologo contrasta con la dottrina luterana dei «due Regni», e diviene proposta profetica di una coscienza che ha maturato una faticosa unità tra pensiero e azione. Non è un caso che in carcere scrive l’«Etica». È Cristo, infatti, il limite e la norma del suo agire. Bonhoeffer lo sperimenterà di lì a poco mediante l’ingresso in quella stazione della sofferenza che egli riconoscerà come possibilità di partecipazione al dolore dell’umanità. Percezione che si può leggere in una prospettiva mistica, Bonhoeffer in quegli anni, e non era il solo, partecipa con la sua esistenza alla sofferenza vicaria di Cristo. Qualche migliaio di chilometri più a sud, in un piccolo paesino garganico, un umile Frate già da un quarto di secolo aveva fatto un’offerta vittimale della propria vita al Signore. In Bonhoeffer, da Tegel a Flossenburg, questa partecipazione vicaria maturerà sempre più come azione nata dall’abbandono fiducioso del discepolo, dall’assenso dell’intelletto e dall’obbedienza del cuore. Ha ragione Bellia quando scrive che «si potrebbe dire che l’azione, dall’iniziale, volontaristica, sola fide, matura nella risposta mistico ascetica del discepolo, per diventare partecipazione piena alla kenosi di Dio nella storia. L’azione etica diventerà allora vicaria: sarà l’azione di Cristo nel suo discepolo» (p. 53).  

Parabola di un’esistenza teologico-spirituale che certamente continua a interpellare. Lì dove c’è il primato dell’ascolto e dunque l’accoglienza del silenzio, la Parola può risuonare ancora in tutta la sua forza e si può incontrare Cristo. Allora s’incontra la martyria di una fede viva, non sonnacchiosa, non anestetizzata. La comprensione delle Scritture conduce inoltre a riconoscere Cristo in una presenza eucaristica che per Bonhoeffer non ha presentato il profilo sacramentale ma si è manifestata mediante il sacrificio della sua esistenza.  

Nell’aprile del ’43 l’arresto, le dure prove interiori, il rifugio nella preghiera e nella meditazione attraversando il tempo del Getsemani e del silenzio di Dio. E poi a Flossenburg, il servizio di pastore e la testimonianza resa ai fratelli, affrontando con abbandono di discepolo la morte avvenuta nell’aprile del 1945, pochi giorni prima della fine del conflitto mondiale. 

Il luteranesimo, con il sacrificio di Bonhoeffer che aveva annunciato l’arrivo di una nuova stagione di martiri per la sua Chiesa, si è sentito chiamato a riconsiderare il valore di un discepolato reso in testimonianza agli uomini del suo tempo. «Non dobbiamo meravigliarci che anche per la nostra chiesa torni il tempo in cui sarà richiesto il sangue dei martiri. Ma questo sangue non sarà così innocente e luminoso come quello dei primi testimoni. Sul nostro sangue ci sarà il peso di una nostra grande colpa: la colpa del servo inetto» («Gli Scritti», p. 153).  

Il suo martirio come conformazione a Cristo parla però a tutte le Chiese come segno della grazia divina e le parole scritte nelle sue lettere dal carcere costituiscono forse il punto più alto della sua diaconia martiriale: «Quando si è rinunciato del tutto a fare qualcosa di se stessi – un santo, un peccatore convertito o un uomo di chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale!), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano […] allora ci si getta interamente nelle braccia di Dio, allora si rendono finalmente sul serio non le proprie, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io, penso, questa è la fede, questa è metanoia; e così diventiamo uomini, cristiani» (Rr, 446).  

Parole che richiamano un denso passaggio della Lumen Gentium: «La Chiesa ripensa anche al monito dell’Apostolo, il quale incitando i fedeli alla carità, li esorta ad avere in sé gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale “spogliò se stesso, prendendo la natura di un servo… facendosi obbediente fino alla morte” (Fil 2,7-8), e per noi “da ricco che era si fece povero” (2 Cor 8,9). L’imitazione e la testimonianza di questa carità e umiltà del Cristo si impongono ai discepoli in permanenza; per questo la Chiesa, nostra madre, si rallegra di trovare nel suo seno molti uomini e donne che seguono più da vicino questo annientamento del Salvatore e più chiaramente lo mostrano, abbracciando, nella libertà dei figli di Dio, la povertà e rinunziando alla propria volontà: essi cioè per amore di Dio, in ciò che riguarda la perfezione, si sottomettono a una creatura umana al di là della stretta misura del precetto, al fine di conformarsi più pienamente a Cristo obbediente» (Lg, 42).  

* Docente di Teologia biblica

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