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Amici di Trump, non di Francesco

Vatican Insider - pubblicato il 27/01/17

L’intervista rilasciata dal Papa al quotidiano spagnolo El Pais, domenica 22 gennaio, ha suscitato non poche polemiche tra coloro che, affascinati dal nuovo presidente americano, non ricambiano di altrettanto amore papa Francesco.  

Nell’intervista il Pontefice esprimeva due diverse valutazioni rispondendo a due distinte domande. Nella prima, rispondendo al quesito sull’attuale inquilino alla Casa bianca, il Papa affermava: «Vedremo che succede. Ma spaventarsi o gioire per ciò che potrebbe succedere credo che significherebbe cadere in una grande imprudenza. Nell’essere profeti o di calamità o di benessere che poi non si verificano, né l’una né l’altro. Si vedrà. Vedremo che fa e allora si valuterà. Sempre il concreto. Il cristianesimo o è concreto, o non è cristianesimo…».  

Si tratta di una valutazione realistica che documenta come il Vaticano scelga di stare alla finestra, attendendo, con prudenza, atti e scelte del nuovo presidente prima di dare valutazioni. È nota la distanza che separa Donald Trump da Papa Bergoglio e i due, nei mesi passati, non lo hanno nascosto. Tra i programmi della nuova amministrazione rientrano la lotta ai migranti, la messa in discussione del trattato con l’Iran, la liquidazione della questione palestinese a favore di Israele, punti su cui il Vaticano non può essere d’accordo. Viceversa sul processo di distensione con la Russia di Putin, fortemente compromesso dalla politica di Obama, con le sue ricadute positive per la pacificazione della Siria e la guerra all’Isis, il giudizio della Santa Sede è certamente positivo.  

Donde la posizione di realpolitik testimoniata dal Papa. Questa valutazione è stata però «ignorata» dai novelli trumpiani a favore di un’altra, contenuta nell’intervista a El Pais, nella quale il Papa criticava i populismi di ritorno che caratterizzano il momento presente, anche a seguito dei disastri provocati dal processo di globalizzazione. Affermava Francesco: «Le crisi provocano paura, apprensioni. Per me l’esempio più tipico dei populismi nel senso europeo della parola è l’anno 1933 tedesco. Dopo Hindenburg, la crisi del ’30, la Germania strozzata cerca di risollevarsi, cerca la sua identità, cerca un leader, qualcuno che le restituisca l’identità e c’è un ragazzotto che si chiama Adolf Hitler che dice: “Io posso, io posso”. E tutta la Germania vota Hitler. Hitler non ha rubato il potere, è stato votato dal suo popolo, e dopo ha distrutto il suo popolo. Questo è il pericolo. Nei momenti di crisi non funziona il discernimento… Cerchiamo un salvatore che ci restituisca l’identità e ci difendiamo con muri, con fili di ferro, con qualunque cosa, dagli altri popoli che ci potrebbero togliere l’identità. Questo è molto grave. Perciò io sempre cerco di dire: dialogate tra voi, dialogate tra voi».  

La seconda risposta era data a una seconda domanda, chiaramente distinta, nell’intervista, da quella concernente il presidente Trump. Ciò non è bastato ai critici di Francesco oltremodo lieti di poter associare populismo-Hitler-Trump come un unico obiettivo, un unico avversario stigmatizzato dal Papa. Un Pontefice imprudente, trascinato dalle sue simpatie «obamiane», si sarebbe lasciato andare a un giudizio grave, anzi gravissimo: Trump eguale al dittatore germanico, carico del sangue della storia. Un’occasione ghiotta, insomma, per gettare fango su Francesco, inadeguato a misurarsi, da Pontefice, con la svolta storica inaugurata dalla Brexit, da Trump, dalla crisi della globalizzazione. Saremmo così di fronte a un pontificato al tramonto, con i suoi sogni buonisti travolti dalla storia.  

Di fronte a una tale mistificazione non si può che registrare la crisi profonda di una parte del mondo cattolico che preferisce, ogni volta, i signori del mondo al successore di Pietro. È stato così con Giovanni Paolo II, durante le due guerre contro l’Iraq promosse dai due Bush, padre e figlio, allorché una gran parte dei cattolici si schierò per la guerra americana contro il volere del Papa. È così oggi allorché l’autorità di Donal Trump viene sventolata contro Francesco. I novelli costantiniani sono orfani di uomini forti, dei defensores fidei; amano gli imperatori non il Papa. Sono gli integralisti imperiali, una nuova razza che, ossessionata dal pericolo relativista, vuole la «Verità» sul filo della spada.  

Non riescono ad arrivare a un giudizio «laico», a una capacità «critica» di distinguere tra positivo e negativo, alla valutazione realistica di cui parla il Papa. 

No, tutto deve essere bianco o nero: Obama pessimo, Trump ottimo, o viceversa. La stessa cosa vale per Putin. Questo manicheismo travolge anche il Papa, il giudizio su di lui. Così gli stessi che non si stancano di criticare Francesco per il suo «populismo» ora non si peritano di usare le sue critiche al populismo come pericolose. Quelle critiche, in realtà, non riguardano una persona ma un fenomeno collettivo che sta prendendo piede ovunque in Occidente. Come in un pendolo, alla oscillazione verso una globalizzazione astratta corrisponde ora quella verso il particolarismo; alla sinistra postmoderna, libertina e neocapitalistica, segue la nuova destra fondata sui timori e il risentimento. Una destra che richiede uomini forti, decisi, capaci di sfidare il politicamente corretto. 

Una destra ostile alle idee, ai ragionamenti, che fa leva sugli istinti e usa della dimensione religiosa solo come strumento per confermare identità conflittuali, in lotta tra di loro. Trump è, nel bene e nel male, l’espressione del vento nuovo, dei nuovi poteri che lottano contro un establishment che resiste con forza. In questa lotta tra poteri la Chiesa non è chiamata a prendere parte, a farsi «partito». Deve, piuttosto, chiedere libertà per sé e per tutti, e conservare una libertà di giudizio senza inginocchiarsi ai potenti di turno, nemmeno a quelli più compiacenti. Fa sorridere lo scandalo dei cattolici anti-bergogliani, diventati ora «trumpiani, contro Francesco». Un tempo seguivano Giuliano Ferrara, quando era ancora direttore del Foglio e bacchettava papa Francesco. Ormai non lo leggono più. Se lo avessero letto avrebbero visto che Ferrara già da tempo, e in modo certo più duro del Papa, aveva già criticato la «destra trumpoide». In suo articolo sul Foglio, del 12 novembre 2016, «Mi spiace, ma non capisco certo trumpismo», Ferrara scriveva che: «Tra Scruton e la Trump University o la Trump steaks ci sono differenze incolmabili. (…) Quello tra Trump e Hillary fu scontro tra due relativismi imbarazzanti, due, dico due, perché The Donald si presenta come un cristiano da reality show». Per l’ex Direttore «la destra berlusconide, leghista e un tantino fascista, che ha sempre scambiato la scorrettezza politica con il magna magna delle idee urlate e sbagliate, una destra in cui si riconoscevano molti lettori del Foglio da rintuzzare e educare con amore e comprensione dall’alto, sí, dall’alto di una posizione colta, di ricerca e trasversale, berlusconiana e non berlusconide, conservatrice liberale e non trumpoide, ha tutto il diritto di fare l’ennesima corsa nullista, ma noi che c’entriamo?».  

Se Ferrara può permettersi, con la libertà che in certi momenti non gli è mancata, di criticare il nuovo Presidente americano che tanto piace alla destra cattolica anti-papalina, non è questo un segno che dovrebbe far riflettere? Nella sua intervista a El Pais il Papa non ha certo identificato Trump con Hitler. Sarebbe stato un irresponsabile, e per di più ignaro delle ideologie e dei processi storici, se lo avesse fatto. Ha invitato, al contrario, a evitare pregiudizi, a valutare a partire dagli atti concreti e non solo dalle parole pronunciate in campagna elettorale.  

Anche da Donald Trump potrebbero venire decisioni apprezzabili e opportune. Si vedrà.  

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