Viaggio in due carceri francesi, dove un programma sperimentale ha spinto i giovani detenuti a “immaginarsi” altrimentidi Bartolomeo Conti
Nel febbraio del 2015, qualche settimana dopo gli attentati a Charlie Hebdo, l’amministrazione penitenziaria francese ha lanciato un programma sperimentale con un doppio obiettivo: aggiornare gli strumenti per l’identificazione dei detenuti “radicalizzati” e realizzare un programma d’accompagnamento in vista del loro reinserimento nella società. La ricerca-azione, realizzata dall’associazione Dialogues Citoyens nelle carceri di Osny e Fleury-Merogis, s’è svolta in un clima di tensione, in cui il carcere era additato da più parti come luogo privilegiato della radicalizzazione. In carcere erano infatti passati gran parte degli autori degli attentati che avevano sconvolto la Francia, da Mohammed Merah a Amedy Coulibaly, da Chérif Khouachi a Mehdi Nemmouche. Dal carcere sarebbero poi passati anche alcuni degli autori degli attacchi fatti in seguito in Francia, come in Germania. La ricerca-azione era chiamata a rispondere a due domande: come capire se un individuo è “radicalizzato”, ossia pericoloso in quanto capace di esercitare violenza in nome di una ideologia? E come intraprendere un percorso di riabilitazione o di reinserimento nella società? Dietro queste due domande se ne cela una terza, che dà la misura della sfida cui son confrontate le società europee: è possibile “deradicalizzare”?
Per rispondere a tali questioni, in entrambe le carceri è stata dapprima fatta una diagnosi del funzionamento dell’istituzione penitenziaria, della vita in detenzione, delle relazioni tra detenuti e personale penitenziario e dei metodi utilizzati dal personale per l’identificazione della radicalizzazione islamista. Questa prima fase ha messo in evidenza l’assenza di una definizione chiara di “radicalizzazione”, con la conseguenza che la percezione del fenomeno è varia e spesso individualizzata. Un sentimento d’inadeguatezza, talvolta accompagnato da una percezione ansiogena, s’impadronisce del personale penitenziario, che finisce spesso per vedere la radicalizzazione anche là dove non c’è. Come è emerso durante la ricerca-azione, questa è spesso confusa con la pratica religiosa ortodossa/fondamentalista, il discorso politico o la “semplice” provocazione verso l’istituzione penitenziaria, con la conseguenza dell’aumento del livello di stigmatizzazione della popolazione carceraria di religione islamica, che si sente “ingiustamente discriminata”, fattore questo che sembra essere fonte di radicalizzazione. La diagnosi ha dunque evidenziato la necessità di cominciare da una ridefinizione dei concetti di base e da una “decostruzione” degli strumenti esistenti, non solo forieri dell’amalgama tra pratica religiosa e radicalizzazione, ma anche inefficaci e obsoleti. Come capire allora quando un individuo è in un processo di radicalizzazione?
La selezione, le interviste prolungate e il programma d’accompagnamento di detenuti sospettati d’essere radicalizzati o in via di radicalizzazione ha permesso di constatare il bisogno dei giovani detenuti di verbalizzare un sentimento d’ingiustizia, d’esclusione e rabbia generalmente all’origine della loro adesione a un discorso di rottura nei confronti di istituzioni e società. Questo discorso va al di là del fenomeno della radicalizzazione islamista: è diffuso anche nei luoghi della marginalizzazione, a cominciare dalle banlieue francesi. La parola dei detenuti è dunque il punto di partenza, in quanto permette d’avere una visione più profonda del percorso individuale di ogni persona incarcerata, attraverso uno scambio di informazioni tra i diversi attori della prigione e un rapporto più diretto con il detenuto stesso. La relazione basata sullo scambio verbale s’è dunque rivelata non solo uno strumento propizio per capire se un individuo è radicalizzato o in via di radicalizzazione, ma anche uno strumento per prevenire la radicalizzazione: è solo attraverso la parola che una sospetta radicalizzazione può essere verificata, disinnescata o combattuta. È proprio la mancanza di dialogo tra l’istituzione penitenziaria e i carcerati a rafforzare il sentimento d’ingiustizia di alcuni detenuti, che può limitarsi alla percezione d’essere oggetto di discriminazione fino all’atteggiamento “paranoide” di essere oggetto di complotto.
Quando i discorsi “anti-repubblicani” o “anti-istituzionali”, basati su certezze ideologiche o preconcetti, diventano indice di radicalizzazione? La ricerca-azione ha mostrato che tali discorsi da soli non bastano per identificare un estremista. Diventano indice di radicalizzazione quando il detenuto presenta altri segni di crisi: gli antecedenti di violenza, l’isolamento o la chiusura in se stesso, un atteggiamento violento durante la detenzione, un percorso personale segnato da rotture, la sensazione di un’ingiustizia “insopportabile” se non ossessiva, la presenza di problemi psicologici, un sentimento di persecuzione individuale e/o collettiva, un cambiamento repentino nelle abitudini religiose e alimentari e nelle relazioni interpersonali. È per poter valutare come tali segni di crisi si combinano, ma anche per comprendere i bisogni soggettivi o le fragilità, che emerge la necessità di stabilire una relazione di scambio e dialogo con ogni singolo detenuto.
Nell’ambito della ricerca-azione è stato sperimentato un programma d’accompagnamento con il doppio obiettivo di prevenire il rischio di radicalizzazione in carcere e creare strumenti per l’integrazione dell’individuo nello spazio sociale. Una cinquantina di detenuti, con profili diversi e di cui solo una parte accusata di terrorismo, ha partecipato ai quattro programmi realizzati nelle due prigioni. Ogni programma, denominato “engagements citoyens”, ha alternato un lavoro individualizzato con sessioni collettive, a cui hanno partecipato un’ampia varietà di soggetti, interni ed esterni alla detenzione (sorveglianti, direzione del carcere, ex-detenuti, academici, responsabili religiosi, persone impegnate nella vita sociale e politica…). Durante le sessioni collettive sono stati affrontati temi legati al vissuto dei detenuti: la vita in carcere, l’esclusione sociale e politica, l’islamofobia e il razzismo, i conflitti nel mondo, ISIS e la Siria, ma anche temi più personali, come l’identità, il rapporto con la famiglia o i percorsi individuali e i progetti professionali. Il programma puntava innanzitutto a permettere ai partecipanti d’avviare un processo di de-stigmatizzazione consentendo loro d’esprimere le loro rappresentazioni della vita in società. Una volta “liberata” la parola, la seconda fase consisteva nell’accompagnare i partecipanti a “rielaborarla” attraverso il confronto con l’altro, gli altri, per tornare infine sul percorso personale, familiare e professionale di ognuno. L’obiettivo era di spingerli a interrogarsi sulla loro traiettoria individuale, così come sulla loro posizione rispetto alla società, sulla relazione che avevano con la violenza, nella prospettiva di far emergere una nuova costruzione di sé, ma anche di trovare nuove modalità per contestare le norme sociali.
Durante il programma, abbiamo assistito a un’importante evoluzione, sia collettiva sia individuale. Se infatti durante le prime sessioni gli scambi tra partecipanti, soggetti esterni e mediatori sono stati segnati da una certa virulenza verbale e comportamenti negativi, tali atteggiamenti si sono gradualmente indeboliti, fino a scomparire. Un’atmosfera di rispetto s’è imposta soprattutto durante le ultime sessioni. È in quest’ultima fase del programma che la visione manichea, talvolta vittimistica e complottista, è stata abbandonata per lasciare il posto a un lavoro sulle traiettorie individuali, che ha permesso ai partecipanti di interrogarsi anche sulle diverse modalità dell’articolazione dell’esperienza personale con l’impegno e la pratica politica e/o religiosa. Quest’evoluzione della parola e del posizionamento dei detenuti è stata possibile grazie a tre processi distinti, che si sono articolati diversamente secondo i vari profili.
Per una parte importante dei giovani che hanno partecipato, in particolare per coloro che si sentono marginalizzati e stigmatizzati a causa della loro origine sociale, etnica o religiosa, la società contemporanea è caratterizzata da un disordine distruttivo e destabilizzante. È nel tentativo “disperato” di rispondere a tale disordine, che si manifesta attraverso la debolezza delle istituzioni tradizionali, famiglia e scuola, e attraverso la perdita d’autorità di figure familiari o comunitarie con la funzione di stabilire il limite tra giusto e ingiusto, lecito e illecito, legale e illegale, che questi giovani “orfani dell’autorità” cercano in una visione semplificata dell’Islam una via che permetta d’eliminare il dubbio, di ridurre le possibilità (destabilizzanti) delle scelte, di confinare la libertà all’interno di un quadro “divino” definito da regole indiscutibili e quindi rassicuranti. Il primo strumento di re-soggettivazione può dunque essere descritto come la reintroduzione del dubbio nella debole fortezza delle loro certezze. Il fatto di interrogarsi sul proprio percorso individuale ha infatti permesso, in particolare ai giovani privi di formazione religiosa o impegno politico, di liberarsi di risposte “assolute” e precostituite.
Il fatto che la parola abbia circolato liberamente e che nessun contro-discorso sia stato proposto o imposto è stato apprezzato dai partecipanti, che hanno “scoperto” uno spazio d’espressione insolito ed inaspettato permettendo loro di riscoprire i benefici del confronto e del dialogo. È in particolare presso i detenuti con basi religiose e politiche più solide che l’apertura di un dialogo con l’istituzione carceraria su temi come la vita in detenzione, la relazione detenuti-sorveglianti, il rispetto delle pratiche religiose dei musulmani, è all’origine di un atteggiamento via via meno conflittuale e più aperto al confronto razionale precedentemente considerato inutile e inefficace.
Il discorso di rottura prende la forma di una narrazione in cui le spiegazioni soggettive, politiche e religiose si sovrappongono, o addirittura si confondono. Per la maggior parte dei partecipanti, l’identificazione del sé, “escluso e rifiutato” a un Islam “attaccato ovunque” e ai musulmani “stigmatizzati e cui è impedito di vivere secondo la loro religione” o “che soffrono sotto le bombe “, è l’asse attorno cui prende forma il discorso vittimistico. Iscrivendo il sé nel campo politico-religioso, questi giovani “politicizzano” i traumi che hanno segnato le loro vite. L’identificazione del sé al collettivo permette inoltre d’evitare di affrontare le difficoltà, se non il fallimento personale e le sue cause, mentre la posizione di vittima diventa il quadro esplicativo di tale fallimento, che permette di non assumersene la responsabilità. L’interrogarsi sul proprio percorso individuale ha sostituito le certezze di una retorica collettiva costruita attorno a vittimizzazione e cospirazione.
Il numero limitato di individui coinvolti in questa ricerca-azione e la relativa omogeneità dei profili non consentono di estendere i risultati all’intero fenomeno della radicalizzazione, caratterizzato da un’estrema varietà di profili e percorsi. Tuttavia, la scelta metodologica d’affrontare il fenomeno a partire dalla parola degli attori ha permesso di far emergere strumenti che possono contribuire all’elaborazione di una nuova narrazione di sé che riduce, o al limite elimina, lo spazio accordato alla violenza. La reintroduzione del dubbio, la separazione di soggettivo e collettivo o la legittimazione della parola dei giovani detenuti non solo hanno fatto emergere le diverse modalità d’articolazione tra le dimensioni soggettiva, religiosa e politica, ma hanno anche mostrato alcuni metodi e strumenti per il reinserimento di questi giovani nel corpo sociale. In particolare, l’abbandono della certezza ideologica e l’apertura di uno spazio di incertezza hanno aperto la strada al fragile “piacere” di immaginarsi altrimenti.