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Un medico in trincea testimonia gli strani modi in cui la fede risponde alla sofferenza umana

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Courtesy of Dr. Timothy Flanigan

Sabrina Arena Ferrisi - pubblicato il 20/01/17

Il dottor Tim Flanigan riflette sulla sua esperienza nel trattare malati di Aids e di ebola

Il dottor Timothy Flanigan lavora in un campo che lo porta così vicino alla sofferenza umana da starci, come dice lui, “guancia a guancia”.

Come docente della Brown Medical School con una specializzazione in Malattie Infettive, il dottor Flanigan ha trascorso gran parte della sua carriera lavorando con i pazienti affetti dall’Hiv, e più di recente con i malati di ebola in Liberia. Flanigan è anche padre di cinque figli e diacono cattolico a Tiverton (Rhode Island, Stati Uniti).

“È molto interessante. Essere un diacono cattolico mi ha facilitato le cose”, ha confessato. Il mio compito è essere un sostegno per i miei pazienti. Non vuol dire evangelizzarli, ma aiutarli a capire che la fede li può aiutare”.

Il dottor Flanigan è arrivato alla Brown Medical School nel 1991 per collaborare a una rete di assistenza primaria alle persone infettate dal virus dell’Hiv, con un’attenzione particolare a donne, tossicodipendenti e individui che uscivano di prigione. Ha sviluppato l’HIV Core Program nella prigione di Stato per i reclusi affetti dal virus e per collegarli a risorse comunitarie dopo il loro rilascio.

Ha anche collaborato a due progetti speciali di importanza nazionale finanziati dalla Health Resources and Services Administration (HRSA) per sviluppare una terapia combinata per dipendenza da narcotici e Hiv e un programma modello di collegamento per prendersi cura delle persone sieropositive che escono dal carcere. È anche direttore associato del The Miriam/Brown Fogarty Program, che forma e assiste ricercatori all’estero sull’Hiv/Aids.

In base ad articoli medici su fede e medicina, ai pazienti piace quando la loro fede viene riconosciuta e supportata da medici e ospedali, ma la maggior parte delle scuole mediche non parla della questione.

“In modo formale, nella scuola medica si può parlare di tutto, ma non menzionate Dio o la preghiera. Si diventa molto nervosi quando saltano fuori argomenti di questo tipo”, ha affermato.

“La tendenza nella scuola medica è descrivere tutto nei termini dei nostri processi biologici”, ha aggiunto, “ma siamo molto più di carne e sangue. La tentazione è quella di vedere tutto come un costrutto biologico, come se tutta la realtà fosse una serie di sinapsi neurologiche. È molto triste”.

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Didascalia foto: Il dottor Flanigan con i colleghi in Liberia.

Anche se le scuole mediche non vogliono sentir parlare di fede, il dottor Flanigan non ha problemi a farlo.

“Sono molto aperto sul fatto di essere un diacono cattolico. Suggerisco sempre ai miei pazienti di approfondire la propria fede, qualunque essa sia”, ha affermato. “Nessuno si è mai sentito offeso. Cerco sempre di approcciare i miei pazienti in modo aperto e senza giudicare”.

La maggior parte dei pazienti di Flanigan è cattolica perché opera nel Rhode Island, uno degli Stati più cattolici degli Stati Uniti, e riesce a vedere come alcuni di loro vivano la propria fede anche se stanno morendo.

“Una dei miei pazienti ha un tumore inoperabile, che le ha provocato molte infezioni. Ha una fede molto profonda, e mi dice che rimarrà qui per il tempo che Dio vorrà”.

A volte, tuttavia, incontra pazienti alienati dalle religioni organizzate.

“Li incoraggio a ripensarci e dico loro che Dio li ama. L’isolamento e l’alienazione sono molto comuni nella malattia. Avere il supporto di una comunità di fede è una cosa splendida, e non costa niente. Dico anche loro che a volte siamo tutti soli, e che tutti abbiamo bisogno di sostegno”.

Il dottor Flanigan ha notato una differenza nella pratica religiosa nei due mesi che ha trascorso in Liberia nel 2015, nel bel mezzo della crisi dell’ebola.

“In Africa Occidentale la fede è una realtà solidissima”, ha riferito. “La gente prega e canta a Dio continuamente. È una cosa splendida. Noi, come americani, intellettualizziamo qualsiasi cosa, ma lì la fede è estremamente reale”.

La fede dei liberiani è stata messa a dura prova dalla diffusione della malattia. “Sono arrivato ad avere un maggior rispetto della paura perché temevo di contrarla”, ha confessato il dottor Flanigan. “Si pregava con più intensità”.

“Le infermiere erano in una situazione particolarmente delicata. Per loro era pericoloso aiutare i malati, perché spesso finivano per ammalarsi. Sono state davvero eroiche. Ogni giorno tornavano al lavoro”.

Per Flanigan, ad ogni modo, la grande sfida della nostra epoca non è una moderna crisi di fede, ma come affrontare la sofferenza, soprattutto in Occidente.

“È un paradosso nel nostro mondo odierno. Siamo bravissimi a rendere la vita molto confortevole, ma non possiamo evitare la sofferenza del cuore umano”, ha dichiarato.

Ne sono prova il suicidio, la depressione e l’ansia in persone altrimenti del tutto sane.

“Come medici assistiamo continuamente all’angoscia e alla sofferenza umane. O si comprende l’amore di nostro Signore in mezzo alla sofferenza o, come fanno alcuni, si respinge Dio. La mia posizione personale è che il Signore attira sempre a Sé le persone che soffrono, anche se non hanno una grande comprensione intellettuale di Lui”.

Il dottor Flanigan lo constata spesso con i pazienti affetti da Hiv ed ebola, molti dei quali si potrebbe pensare siano lontani della fede.

“Uno dei miei pazienti negli anni Ottanta era un uomo di San Francisco. Era un gay che era stato alienato dalla Chiesa. È rimasto in ospedale per sei settimane per un’infezione. Nella sua sofferenza si è rivolto al Signore e recitava il rosario ogni giorno con sua madre”, ha ricordato il medico, che da questo episodio ha imparato una grande lezione sullo Spirito Santo.

“Lo Spirito Santo non deve convivere con le nostre idee preconcette. Rimango sempre sorpreso dal penetrante potere della grazia. Non lo si capisce mai appieno. Lo Spirito Santo è spesso presente in situazioni nelle quali non ce lo aspetteremmo”.

Questi pensieri fanno sì che il dottor Flanigan vada avanti anche quando si sente scoraggiato.

“Ci sono moltissime cose che non capiamo. Ieri stavo parlando con un amico che lavora con i tossicodipendenti. È andato nella morgue e ha visto una donna morta per overdose. Era incinta all’ottavo mese. Non c’è risposta a questo tipo di dolore, ma so che il Signore è presente e la abbraccia”.

Quando la situazione diventa schiacciante, Flanigan dice ai suoi studenti di fermarsi – un consiglio che segue egli stesso.

“Fermarsi significa: se hai fame mangia, se sei arrabbiato fai una passeggiata, se sei solo fai visita a qualcuno o chiama qualcuno, se sei stanco vai a letto”.

Un ottimo consiglio da una persona che lavora in trincea nel far fronte alla sofferenza umana.

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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