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Convertito per salvarsi la vita: “Mi vergogno di aver dovuto professare l’islam”

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© AED/ Jaco Klamer

Aiuto alla Chiesa che Soffre - pubblicato il 19/01/17

Per due anni ha vissuto sotto il terrore dello Stato Islamico

Due mesi fa, Ismail è riuscito a fuggire dalla città irachena di Mosul con la madre, Jandark Behnam Mansour Nassi, dopo essere sopravvissuto per oltre due anni sotto il terrore del Daesh. Attualmente, Ismail e Jandark vivono a Erbil, nella regione autonoma curda dell’Iraq. Ci hanno raccontato la loro storia.

“Mia madre ed io vivevamo a Bartella, uno dei villaggi cristiani nella piana di Ninive”, ha raccontato Ismail. “Una mattina di agosto, quando ci siamo svegliati abbiamo constatato che lo Stato Islamico aveva conquistato la cittadina. Abbiamo cercato di andare via, ma gli jihadisti ci hanno sequestrati e ci hanno portati a Mosul”.

“Avevo molta paura”, ha detto Jandark, vedova. “Avevano scritto i nostri nomi e non avevamo idea di dove fossimo o di cosa sarebbe stato di noi. Eravamo completamente separati dal resto del mondo. Poco dopo ci hanno permesso di tornare a Bartella, ma in una postazione di controllo ci hanno detto che dovevamo convertirci all’islam. Quando ci siamo rifiutati di farlo ci hanno picchiati. Hanno portato mio figlio in carcere. All’epoca aveva appena 14 anni”.

“Mi hanno portato nel carcere di Bartella”, ha proseguito a raccontare Ismail. “Un giorno, uno sciita è stato assassinato proprio davanti a me. I terroristi mi hanno detto: ‘Se non vuoi convertirti all’islam uccideremo anche te’. E allora mi sono convertito. Da allora abbiamo nascosto il fatto di essere cristiani”.

Ismail è stato rilasciato e portato con sua madre da un posto all’altro: da Bartella a vari quartieri di Mosul, e poi nel piccolo villaggio di Bazwaya, a pochissima distanza da Mosul.

“Ci hanno dato un documento del Daesh che diceva che eravamo musulmani”, ha continuato Ismail. “In quel modo potevo uscire in strada a Mosul, ma per strada non si era sicuri di sopravvivere. Una volta mi hanno picchiato perché avevo i pantaloni troppo lunghi”.

“Un’altra volta, mentre mi dirigevo verso la moschea con gli jihadisti, la mattina presto, abbiamo trovato la strada bloccata. All’improvviso ci sono passati accanto degli uomini vestiti con un abito arancione, contro i quali puntava le armi un gruppo di ragazzini dello Stato Islamico. I bambini li hanno giustiziati con piacere”.

“In un’altra occasione mi sono imbattuto in una grande folla per strada. Stavano tutti intorno a una donna, legata mani e piedi. I terroristi dello Stato Islamico hanno tracciato un cerchio intorno a lei. Se fosse riuscita a uscire dal cerchio l’avrebbero lasciata vivere, ma era impossibile perché era legata. Mentre i suoi familiari piangevano e supplicavano di perdonarla, gli jihadisti l’hanno lapidata fino a farla morire”.

Lo Stato Islamico mi ha portato in un campo di correzione, dove ho dovuto farmi crescere barba e capelli. A mia madre è stato dato un lungo vestito nero, ma non le era permesso di uscire in strada. I guerriglieri dello Stato Islamico volevano che mi sposassi, così avrei potuto essere uno di loro. Ho risposto che ero troppo giovane, che avevo solo quindici anni, ma questo non li ha colpiti, perché anche ragazzini di tredici erano sposati. I terroristi mi hanno chiesto di unirmi a loro. Erano convinti che il loro Stato sarebbe sopravvissuto a tutto”.


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“Nello Stato Islamico hanno costretto mio figlio a praticare l’islam, e io sono stata torturata perché non sapevo nulla dell’Islam e del Corano”, ha detto Jandark.

“Sì, mi vergogno di aver dovuto professare l’islam”, ha affermato Ismail.

“I guerriglieri dello Stato Islamico mi hanno obbligato a pregare”, ha proseguito. “Mi hanno dato un tappeto di preghiera dal quale rivolgermi ad Allah. Gli uomini sono costretti a pregare in moschea il venerdì. Chi osa girare per strada durante la preghiera del venerdì può essere colpito. Nella moschea ci dicevano che gli assiri sono cattivi e che i cristiani non hanno la vera fede. Mia madre doveva pregare in casa, ma non ha pregato Allah”.

“I guerriglieri dello Stato Islamico hanno poi scoperto la mia catenina con una croce, segno del fatto che sono cristiano. Gi jihadisti mi hanno picchiato e mi hanno fatto studiare il Corano per un mese. Mi colpivano quando non sapevo rispondere alle loro domande nel modo che si aspettavano da me; mia madre veniva punta con lunghi aghi perché non aveva studiato niente del Corano”.

“Un giorno abbiamo sentito che Qaraqosh, un altro villaggio cristiano della piana di Ninive occupato dal Daesh, era stato liberato e che le truppe di liberazione avevano espulso gli jihadisti da Bartella. Poco dopo sono iniziati gli attacchi aerei su Mosul, e molte persone sono fuggite. Anche i membri dello Stato Islamico sono fuggiti, e nella fretta hanno abbandonato varie armi, ma si sono portati dietro varie persone nel loro percorso verso Mosul, tra le quali io e mia madre. Per tre giorni siamo stati sotto il controllo di un jihadista”.

Quando i terroristi erano troppo occupati nella battaglia ci hanno abbandonati. Abbiamo sentito di nuovo che l’esercito stava avanzando. Abbiamo preso un taxi verso il fronte, verso la libertà, ma gli jihadisti hanno bloccato la strada. In seguito abbiamo riprovato a fuggire, e così siamo capitati al fronte. Franchi tiratori dello Stato Islamico cercavano di colpirci. Siamo corsi a rifugiarci in una casa. Dopo varie ore di battaglia, mia madre ed io siamo riusciti a uscire dalla casa con una bandiera bianca. I soldati dell’esercito di liberazione iracheno ci hanno dato il benvenuto. Eravamo liberi!”

Aiuto alla Chiesa che Soffre-ACS Spagna ha sostenuto i rifugiati cristiani di Erbil e Baghdad con più di 23 milioni di euro da quando è iniziata la crisi, nell’agosto 2014. Tra i progetti più importanti c’è il programma di alimenti per famiglie sfollate di Mosul e della piana di Ninive, che beneficia circa 13.000 famiglie, e il programma di affitto di alloggi per circa 1.800 famiglie cristiane sfollate in Kurdistan.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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