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Come sto allestendo uno spazio cattolico per i divorziati risposati

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© amira_a

Centro de Estudios Católicos - pubblicato il 19/01/17

La chiave è accompagnare con autentica misericordia

Alcune settimane fa, mi sono offerto come volontario per collaborare all’elaborazione di una pastorale rivolta ai divorziati risposati, seguendo le intenzioni proposte da papa Francesco.

Mi affretto a chiarirlo per ricordare a me stesso che non posso scrivere un articolo basato sulle lamentele. Nessuno mi ha obbligato a gettarmi in questa avventura, e quindi non mi posso lamentare.

Suona bene, mi sono detto. È una grande opportunità per mettere in pratica la mia nuova decisione di svolgere un apostolato diretto. E poi, cosa ci può essere di tanto difficile nell’organizzare una pastorale? Non ne avevo idea. Avrei dovuto sospettare qualcosa, visto che il papa ha deciso che erano necessari un Sinodo straordinario e un altro ordinario per affrontare questo tema.

In questo caso, come in tanti altri, la cosa più raccomandabile è cercare il modo per iniziare immediatamente, prima che le emozioni si raffreddino e il tempo trovi modi per collocare sempre più ostacoli sul cammino. “Alla carica!”, ho detto a voce alta.


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Ma come iniziare se non si ha idea della direzione da seguire? La cosa migliore è compiere il passo ovvio successivo, per quanto possa essere piccolo. In questo caso, il passo più ovvio era ricorrere a Google, che mi ha bombardato con centinaia di documenti appropriati, pubblicati sia da vicarie pastorali che da movimenti cristiani riconosciuti. Ne ho scaricati vari, li ho uniti ad altri che avevo trovato su questo stesso sito e mi sono messo a leggerli.

Come si organizza una pastorale?

I documenti concordano nell’affermare che non si può pianificare una pastorale efficace se prima non si definiscono alcune premesse di fondo: gli obiettivi, le azioni da mettere in atto, i mezzi, ma soprattutto a chi è diretta la pastorale, in che luogo e in quale momento.

In altre parole, come in ogni itinerario di viaggio, impresa o avventura, è molto utile avere una mappa che non solo indichi dove vogliamo arrivare, ma ci dica anche da dove partiamo.

In questo caso, mi sembra che l’obiettivo che vogliamo raggiungere sia piuttosto chiaro: accogliere con affetto cristiano nella comunità i divorziati risposati perché ricevano il sostegno che chiedono, come suggerito dal pontefice.

L’aspetto complicato è l’altro estremo, ovvero il punto di partenza.

La storia e l’esperienza ci hanno insegnato che sbagliare a definire il punto di partenza può risultare catastrofico. Un esempio di questo errore potrebbe essere il fatto di presumere di sapere in anticipo quello di cui hanno bisogno gli altri, ciò che pensano e provano.

Cosa farei io se qualcuno venisse da me con una serie di regole per cambiare il mio stile di vita? Non credo che sarei molto ricettivo, tanto per usare un eufemismo.

Se voglio aiutare a creare una pastorale efficace per i divorziati risposati, devo compiere uno sforzo per conoscere meglio loro, i loro problemi, le loro paure, le loro obiezioni, la loro vita.

La chiave è l’atteggiamento

Un carissimo amico, di quelli che hanno dovuto affrontare le sfide più difficili, mi ha detto una volta mentre filosofeggiavamo davanti a una buona bottiglia di vino che la chiave nella vita non è il successo, ma il modo in cui si affronta ciò che ti viene posto davanti. La chiave, ha detto, è l’atteggiamento.

Un esempio di quanto possa essere complicata una pastorale rivolta ai divorziati risposati è il richiamo pubblicato qualche giorno fa dall’arcivescovo di Philadelphia (Stati Uniti), Charles Chaput, sulla falsa misericordia.

“I divorziati risposati civilmente continuano ad essere membri benvenuti dalla comunità credente, ma la Chiesa non può ignorare la Parola di Dio sulla permanenza del matrimonio, né può mitigare le conseguenze delle scelte compiute liberamente da persone adulte”, ha dichiarato.

In altri termini, dobbiamo accogliere con calore i divorziati risposati nella nostra comunità, ma senza smettere di dire chiaramente che hanno bisogno di aiuto per vivere un processo di conversione.

L’arcivescovo ha ragione. Lo stesso Gesù, che condivideva la tavola con pubblicani e peccatrici, non si esimeva mai dal chiamare il peccato con il suo nome, senza concessioni.

La Chiesa non può validare un comportamento che separa le persone da Dio e allo stesso tempo rimanere fedele alla sua missione, ha affermato l’arcivescovo Chaput. “Un sincero avvicinamento a Dio comporta sempre un allontanamento dal peccato e dall’errore”.


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Ma i divorziati risposati vorranno avvicinarsi a una comunità pronta ad additarli come peccatori? Come strategia di marketing è una causa persa.

E torniamo all’inizio: istituire una pastorale per attirare e correggere allo stesso tempo non è affatto facile. Per fortuna è lo stesso papa Francesco a darci un’indicazione per uscire dall’impasse, chiedendo ai cristiani di accompagnare gli altri nelle realtà anche ingarbugliate della loro vita.

La chiave è questa. L’atteggiamento corretto è accompagnare più che riprendere.

Non si possono accompagnare gli altri dal tribunale del giudice. Bisogna iniziare sedendosi a tavola con loro e condividendo, come dice il papa, le realtà intricate delle loro esistenze. Il pastore deve avere l’odore delle pecore.

In base alla dottrina della Chiesa, la missione delle comunità è quella di aiutare tutte le famiglie a risolvere quei problemi che non riescono a risolvere da sole perché sono troppo grandi (sussidiarietà).

L’opportunità di avvicinamento che hanno le nostre comunità è nel concentrarsi su questi problemi. Poi verrà la possibilità, se Dio lo ritiene opportuno, della correzione fraterna.

Iniziare a perdonare se stessi

Facundo Cabral, famoso trovador e filosofo argentino, ha riferito spesso in pubblico di essere stato amico personale di Madre Teresa di Calcutta, che riteneva l’Amore stesso. In un’occasione, ho sentito che raccontava in un’intervista di aver imparato da lei che “chi perdona se stesso smette di giudicare gli altri”.

Una cosa porta l’altra. Ho ricordato quell’intervista mentre rivedevo i miei appunti sul difficile compito di elaborare una pastorale per i divorziati risposati.

È accaduto così: ho mostrato una bozza di questo articolo a un amico, e tra le altre osservazioni ha espresso un commento duro e azzeccato: “Qualcosa deve cambiare nella Chiesa, in noi, dal profondo del cuore, che si noti, perché quando accogliamo un peccatore, o in questo caso una coppia di divorziati risposati, abbiamo innanzitutto un’autentica misericordia”.

Commentavamo l’appello dell’arcivescovo Chaput a non cadere nella tentazione della FALSA misericordia e la necessità di evitarla per riuscire a elaborare una pastorale efficace. Il mio amico affermava che la via corretta era optare per la misericordia AUTENTICA.

Ma cosa deve cambiare nel nostro cuore per optare per l’autentica misericordia? Era questa la domanda chiave della questione, e ho trovato un ottimo spunto per rispondere proprio nei commenti del mio amico, quando mi ha detto: “L’aspetto principale è l’atteggiamento con cui ci accostiamo a qualsiasi peccatore, a cominciare da noi stessi. A volte siamo giudici senza misericordia di noi stessi, e allora come potremo non esserlo nei confronti degli altri?”

È stato allora che ho capito cosa deve cambiare nei nostri cuori, mentre ricordavo Cabral e l’insegnamento di Madre Teresa.

In quell’intervista, Facundo Cabral confessava che all’inizio della sua carriera era uno di quelli che passavano la vita a giudicare, ma che a un certo punto della vita si era perdonato, e da quel momento aveva smesso di giudicare gli altri.

Cabral aveva ragione. Di fatto, è un processo per il quale passiamo probabilmente tutti, e che gli psicologi definiscono “proiezione”.

Si tratta di un processo inconsapevole, che funziona più o meno così: siamo giudici senza misericordia di noi stessi e concludiamo di non essere buoni come vorremmo, ma accettare il nostro verdetto risulta molto doloroso, e inconsapevolmente iniziamo a notare gli errori altrui per riconoscerci migliori di loro e salvare così la nostra autostima dal suicidio emotivo.

Quello che deve cambiare nel nostro cuore è proprio l’atteggiamento con cui stiamo trattando noi stessi.

L’atteggiamento dell’accompagnamento è quello con cui vorrei essere accompagnato, e dobbiamo iniziare praticando l’autentica misericordia con noi stessi, perché nessuno può dare ciò che non possiede.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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