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Le uccisioni di preti in Messico, un mistero non ancora chiarito

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Vatican Insider - pubblicato il 17/01/17
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Joaquín Hernández Sifuentes è l’ultimo sacerdote ucciso in Messico. Era scomparso il 3 gennaio nella città di Saltillo, Coahuila, e nove giorni dopo il suo corpo è stato trovato insieme con altri due in una periferia del comune di Parras. 

Secondo la polizia locale il sacerdote è stato strangolato, probabilmente poco tempo dopo il momento della sua scomparsa. L’anno scorso in Messico altri tre sacerdoti sono stati giustiziati quasi con la stessa dinamica: sequestro-scomparsa-uccisione. In totale, negli ultimi quattro anni sono stati uccisi 16 sacerdoti e dal 2006 a oggi 37. Negli ultimi 27 anni, dal 1990 a oggi, i sacerdoti uccisi sono 44. Il Siame, Sistema informativo dell’Arcidiocesi di Città del Messico, e il Ccm, Centro cattolico multimediale, nelle loro ricerche documentano una situazione del clero messicano, in particolare diocesano, allarmante: omicidi, sequestri, torture, estorsioni, profanazioni di luoghi di culto, minacce di morte e aggressioni o intimidazioni varie. 

Mistero, bugie, paura e omertà  

Questi elementi sono alla base di un dato di fatto ormai incontrovertibile e confermato da molte inchieste, anche giornalistiche: il Messico è da diversi anni il paese più pericoloso del mondo per i sacerdoti e più in generale per gli agenti pastorali. Attorno a questa sorta di «maledizione» è possibile individuare una serie di considerazioni che rendono la questione molto complessa per l’intreccio di bugie, omertà, depistaggi, vendette, paure, ricatti e intimidazioni anticlericali. 

Nell’uccisione di tutti questi sacerdoti, incluso padre Hernández Sifuentes, l’ultima vittima del lungo elenco, il copione si è ripetuto con precisione quasi meccanica. Cambia il nome della vittima mentre il «modello», corretto e riveduto, è sempre più efficiente.  

È chiaro che sulle uccisioni mirate di preti ormai sembra che i mandanti, quasi mai individuati, abbiano collaudato un metodo criminale che ricorda quello del «colpirne uno per educarne cento». 

Spesso le vittime designate erano preti con un rilevante radicamento territoriale e grandi capacità comunicative, quasi sempre attive nel denunciare e condannare la criminalità che è endemica in molte regioni del Messico. Persone dunque molto impegnate nella pastorale sociale con grande capacità di mobilitazione, in grado di mettere in moto, con forte partecipazione cittadina, progetti di promozione umana, e al contempo in grado di organizzare e dar voce alle proteste contro le ingiustizie, i soprusi e l’inquinamento delle indagini che le organizzazioni criminali impongono alle comunità rurali e nelle città – spesso con la connivenza e la corruzione di quello stesso potere che dovrebbe proteggere i cittadini – per gli interessi di quel mostro che divora il Messico: il narcotraffico. 

Individuato l’obiettivo la criminalità messicana privilegia il sequestro, prodromo dell’omicidio, perché sa trarre profitto anche dalla scomparsa della vittima e in questa fase del suo piano criminale può contare anche su curiosi appoggi della stampa. Ormai è risaputo che poche ore dopo la notizia del sequestro di un sacerdote sono scontati gli articoli che inoculano nell’opinione pubblica i soliti dubbi: le ragioni della tale scomparsa sono forse legate a questioni sentimentali; la vittima era al centro di pettegolezzi per alcuni suoi comportamenti sessuali; aveva comportamenti pedofili; spendeva i soldi delle elemosina nel gioco d’azzardo o nelle scommesse; nella sua vita passata ci sono passaggi poco chiari e un oscuro passato è tornato per esigere il conto e via discorrendo.  

L’anno scorso, in un caso molto amplificato dalla stampa, le più importanti testate messicane diffusero addirittura un video in cui, dicevano, si «vede uscire il prete scomparso da un albergo in compagnia di ragazzino» con il quale avrebbe passato la notte. Quando il signore del video, che ovviamente non era il prete sequestrato, si presentò alla polizia per dichiarare che il bimbo era suo figlio, nessuna di queste testate ebbe la cura di smentire la bugia e la calunnia. E non è mai accaduto che su queste vittime, che quando già erano cadaveri, magari non ancora scoperti, venivano calunniate sulla stampa con ogni tipo d’infamia, o, nella migliore delle ipotesi, di congetture fantasiose e sensazionaliste, ci sia stata poi una smentita, una correzione o una precisazione. 

Quanto sta accadendo in Messico con l’uccisione di sacerdoti è sempre più evidente e lo sostengono tutti gli analisti dei centri di studi più seri e autorevoli: in questo Paese le diverse forme e organizzazioni del narcotraffico, cartelli e microcriminalità, hanno dichiarato guerra a quella parte della Chiesa cattolica, soprattutto sacerdoti, che è un argine di denuncia e contrasto per i loro interessi criminali. Lo sostiene, da anni e in diversi rapporti, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America e i principali centri internazionali e regionali che monitorano la realtà messicana. 

I comportamenti conniventi con i crimini  

Che la situazione sia questa non sembra però essere un’opinione condivisa in modo ampio e convinto, anzi. In generale le autorità governative, federali e statali, spesso provano ad abbassare il profilo della gravità di questi fatti e non poche volte alti funzionari governativi, contribuiscono a creare confusione, depistare le indagini, uccidere per la seconda volta la vittima con il terrorismo delle chiacchiere.  

Sembrerebbe che la parola d’ordine sia sempre e comunque «sdrammatizzare», con ogni mezzo, soprattutto contestando le statistiche; così, con tecniche mediatiche omertose e denigratorie, si tramutano questi crimini del narcotraffico in «tristi e deplorevoli» fatti di cronaca nera, frutto di liti casuali, furti con violenza finiti male, o affari squisitamente privati. Nel frattempo, ovviamente, il crimine organizzato tace: non rivendica mai nulla, fa finta di essere estraneo ai fatti, o peggio ancora, dove può far circolare voci scandalistiche contro gli uccisi lo fa con grande entusiasmo e sicurezza, appoggiandosi su quella parte di tessuto sociale inquinato e connivente con il narcotraffico. In diversi casi si sono visti, nei giorni del sequestro e nel corso delle indagini, numerosi «testimoni» fare dichiarazioni sullo scomparso con il chiaro scopo di denigrare la sua figura e la sua opera, quasi a voler sentenziare: se lo hanno sequestrato ci sarà qualche ragione. 

L’analisi della Chiesa messicana  

Sorprende però che la stessa Chiesa cattolica in Messico, in questa materia, abbia una condotta singolare e ondulatoria. Le numerose dichiarazioni che molti vescovi hanno rilasciato in questi anni sono accomunate da una preoccupazione generale: quella di non far passare l’idea che dietro tanti crimini ci sia una persecuzione religiosa, giudizio che sicuramente è vero e giusto. Nella meravigliosa storia della Chiesa cattolica messicana c’è un passato, terribile e lacerante, di persecuzione e questa memoria dolorosa spesso condiziona molte delle sue condotte. In questa comunità ecclesiale è sempre vivo il timore di rivedere situazioni simili e dunque, istintivamente, tende ad allontanare il fantasma di nuove persecuzioni. Ecco perché di fronte a questa sorta di ecatombe di preti la gerarchia è perentoria: non c’è nessuna persecuzione religiosa. Come già detto è un giudizio sostanzialmente veritiero, ma… 

È chiaro che non si tratta di azioni criminali in odio alla fede e dunque in questo senso non sarebbe corretto parlare di persecuzione religiosa. È però ugualmente chiaro e indiscutibile che i sacerdoti messicani sono da anni un obiettivo specifico del narcotraffico e perciò la chiesa non può essere riduttiva nelle sue considerazioni e analisi. Un tale modo di ragionare può essere fuorviante e diseducativo, e forse ingiusto nei confronti di coloro che hanno perso la vita in questa guerra sotterranea. 

Padre Alfonso Miranda Guardiola, responsabile della Conferenza episcopale messicana per le comunicazioni, i primi d’ottobre dell’anno scorso nel suo primo incontro con la stampa ha dichiarato: «Non vediamo una persecuzione aperta contro i sacerdoti come se fossero un target. Per noi sono fatti da inserire nel clima sociale che vive il Paese» (…) e in questo clima «i sacerdoti non sono immuni, sono come ogni cittadino. Come Chiesa dobbiamo stare attenti e prepararci per sapere come trattare questo clima poiché i sacerdoti si trovano in tutti gli angoli del Paese, inclusi quelli dove esiste la massima violenza e dove c’è una presenza del crimine». 

Si capisce bene il senso ultimo delle parole di padre Miranda, in particolare dove senza dirlo esplicitamente associa, giustamente, la sorte dei preti messicani a quella del loro popolo, anch’esso coinvolto nel martirio. C’è però qualcosa che convince un po’ meno, e cioè che i sacerdoti di questa nazione non siano un obiettivo specifico delle violenze che dilaniano il Paese. Le statistiche sommariamente ricordate qualcosa stanno dicendo e non si può evitare di trarre le conseguenze almeno per quanto riguarda la pastorale della Chiesa che nella difesa della dignità umana di ogni messicano l’avvicina, con audacia profetica e coraggio evangelico, al confine del crimine. È vero che le vittime non sono state giustiziate perché erano sacerdoti ma è anche vero che sono state giustiziate perché erano fedeli al loro ministero e alla loro missione. 

Due volte vittime  

In America Latina quante uccisioni di preti, suore, catechisti, laici impegnati, vescovi (e un cardinale, proprio in Messico, il 24 maggio 1993, Jesús Posadas Ocampo) sono state, anni addietro, spacciate come frutto della violenza generalizzata, salvo poi scoprire che erano tutte «due volte vittime»; vittime dell’odio delle dittature pagane, della stampa a loro asservita, dei timorati ben pensanti, dei cosiddetti moderati per convenienza, del crimine mafioso, delle guerriglie marxisti-leniniste e maoiste, dei paramilitari della destra integrista, nonché dell’indifferenza di tanti, troppi!, inclusi non pochi uomini di Chiesa. (1)  

Vengono subito alla mente parole di papa Francesco: «Il martirio di monsignor Romero non avvenne solo al momento della sua morte; fu un martirio-testimonianza, sofferenza anteriore, persecuzione anteriore, fino alla sua morte. Ma anche posteriore, perché una volta morto — io ero un giovane sacerdote e ne sono stato testimone — fu diffamato, calunniato, infangato, ossia il suo martirio continuò persino da parte dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato. Non parlo per sentito dire, ho ascoltato queste cose. (…) Solo Dio conosce le storie delle persone, e quante volte persone che hanno già dato la loro vita o che sono morte continuano a essere lapidate con la pietra più dura che esiste al mondo: la lingua» (30 ottobre 2015). 

Quindi, che i preti in Messico, in particolare coloro che si battono a viso aperto contro i cartelli della droga, non siano un obiettivo preferenziale è un’affermazione molto discutibile e pericolosa. Sarebbe opportuno, come già detto, non dimenticare il passato recente e lontano dell’America Latina. Questo è un terreno sul quale la storia, i fatti, l’esperienza, raccomandano di camminare con cautela, senza cedimenti di nessun tipo. Non si deve cedere al panico, alla paura, all’esagerazione e all’allarmismo. Però non si deve cedere neanche al compromesso ipocrita del «buon vicinato» con il potere, nascondendo la verità per non irritare i governanti di turno. 

*** 

(1) In America Latina si ricordano casi tragici emblematici in questo senso. Ecco alcuni: sul beato Oscar Arnulfo Romero (El Salvador), ucciso il 24 marzo 1980, per molti anni si fece circolare la voce seconda la quale le cause della sua morte andavano cercate nel suo «estremismo fanatico e nella sua imprudenza politica nonché nel suo zelo eccessivo». Sull’assassinio del cardinale Posadas Ocampo, Messico, il 24 maggio 1993, vescovi e diplomatici vaticani per anni accreditarono la versione secondo la quale il porporato era rimasto vittima di uno scontro tra bande di narcotrafficanti che non sapevano neanche chi fosse. Solo negli ultimi anni si è riconosciuto che i narcotrafficanti avevano sentenziato la morte del Porporato. E in Argentina, monsignor Enrique Angelleli, ucciso dalla dittatura di Jorge Videla, il 4 agosto 1976, e sulla cui morte la quasi totalità della gerarchia si adeguò alla versione ufficiale: «Doloroso incidente stradale»”. Sono decine i casi quasi identici in tutti i paesi della regione latinoamericana.  

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