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La Chiesa accettò o si oppose alla schiavitù? Le risposte in uno studio

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Unione Cristiani Cattolici Razionali - pubblicato il 09/01/17
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Pubblichiamo la conclusione del libro La Chiesa e gli schiavi (EDB 2016), ampliamento della tesi di laurea in Antropologia (UniBo 2015, col medievista prof. Leardo Mascanzoni, che ha curato la prefazione) del nostro articolista Roberto Reggi, realizzato con l’aiuto del latinista Filippo Zanini e dell’antichista Gian Battista Cairo. Il testo raccoglie tutte le fonti (circa 250) del magistero ecclesiale sul tema della schiavitù, di cui ci siamo più volte occupati, evidenziando l’efficacia della dottrina cristiana nell’abolizione di questo istituto altrimenti universale.

 

Quanto al rapporto tra schiavitù e Chiesa cattolica, la storiografia sembra in definitiva risentire di una certa polarizzazione ideologica. Da un lato, documenti ecclesiali e monografie apologetiche e filocattoliche tendono a presentare la Chiesa come integerrima paladina della libertà, dato che fin dai suoi esordi si è battuta per la mitigazione della schiavitù, l’emancipazione degli schiavi, e poi l’abolizione vera e propria, sia nel medioevo che nell’età moderna. Dal lato opposto, testi di stampo anticlericale la presentano come pienamente connivente con la schiavitù, dato che ha più volte condannato la liberazione generalizzata e ha tratto sostentamento dal lavoro di schiavi impiegati in fondi ecclesiastici del medioevo e oltre.

Ma in estrema sintesi come stanno le cose? La Chiesa cattolica fu schiavista o antischiavista? Dati e fonti alla mano, la risposta giusta è: dipende da cosa si intende per schiavitù. Anche se le fonti occidentali usano prevalentemente il termine servus, troppo facilmente fatto corrispondere al moderno «schiavo», la servitù non è mai stata socialmente, dottrinalmente e pastoralmente intesa come un’unica e monolitica istituzione.

È infatti doverosa la distinzione teorica tra:
schiavitù ingiusta: cioè l’asservimento di civili innocenti, catturati, deportati, comprati e venduti, usati e abusati. Questa non è mai stata giustificata e incoraggiata dall’insegnamento cattolico ma, anzi, è stata ripetutamente condannata, in particolare in occasione della tratta mediterranea e soprattutto della tratta atlantica;
servitù giusta, ripartita tra: servitù penale, cioè la privazione della libertà come conseguenza di crimini, quando non esisteva ancora l’istituto carcerario; servitù bellica per i prigionieri che non venivano uccisi, quando non esistevano ancora campi di internamento per prigionieri, in particolare i nemici pagani e saraceni incontrati nell’esplorazione dell’Africa atlantica; servitù economica e volontaria, cioè il rapporto subordinato e a tempo indeterminato tra un sottoposto e un padrone che gli doveva garantire tutela giuridica, protezione militare, mezzi di produzione (in essa va inclusa la categoria storiografica dei «servi della Chiesa», che non erano affatto una forma di schiavitù, ma durante i secoli feudali hanno garantito il sostentamento a persone ed enti ecclesiali, in maniera analoga a quanto avveniva in ambito secolare).

La schiavitù ingiusta è stata considerata illegittima dall’insegnamento cattolico principalmente sulla base di alcuni temi teologici: la naturale uguaglianza degli uomini derivati da un unico creatore; lo stato di originaria e naturale libertà; la redenzione e liberazione operata da Cristo; nonché per motivi di compassione morale che si potrebbero definire caritatevoli o filantropici.


In questo senso la prima condanna contro l’ingiusta schiavitù di persone libere, cristiani o meno, può essere trovata già nel Nuovo Testamento, con la condanna paolina dei «mercanti di uomini» (1Tm 1,10); tra i padri, prima l’orientale Gregorio di Nissa († 394), poi l’occidentale Agostino († 430). Tra i concili ecclesiali la prima esplicita condanna si ha col concilio di Reims (625), tra i papi con Giovanni VIII (†882), ma per una condanna solenne, autorevole, universale, fondata sui temi antropologici e teologici suddetti, occorre attendere la Creator omnium di papa Eugenio IV (17 dicembre 1434).

Invece la servitù giusta è stata variamente legittimata (inevitabile conseguenza, male minore, provvidenziale disposizione divina) come derivata dal peccato originale e dai peccati personali degli uomini, inclusi crimini, guerre e ingiustizie sociali; ritenuta appropriata e legittima non sul piano giuridico del diritto naturale (assoluto, originale e voluto da Dio), ma su quello del diritto delle genti (relativo, contingente e voluto dagli uomini). Questa convinzione cristiana ha segnato un radicale distacco dalla concezione classica sintetizzata da Aristotele, il quale intendeva la schiavitù (con la considerazione dello schiavo come un mero «strumento animato») come logica e naturale. Circa la servitù giusta può essere utile precisare che, pur con le debite differenze storicamente contingenti, a livello assoluto e teoretico anche le società contemporanee presentano istituzioni affini: la privazione di libertà dei criminali, eventualmente da impiegare in lavori forzati; la riduzione in prigionia di aggressori e nemici esterni alla nazione; la sottoscrizione di un contratto lavorativo a tempo indeterminato, dove il «padrone» fornisce mezzi di produzione per il mantenimento dei sottoposti.

In entrambi i casi (schiavitù ingiusta e servitù giusta), l’insegnamento cattolico ha frequentemente esortato i sottoposti all’accettazione della condizione acquisita, i superiori al trattamento fraterno e non violento dei sottoposti, e ripetutamente valorizzato la meritoria azione di liberazione. Se non si riconosce questa distinzione tra schiavitù ingiusta e servitù giusta, non si capisce come mai in molti concili e autori sono presenti riflessioni e disposizioni al contempo sia favorevoli che contrarie alla servitù: ad esempio Agostino, Gregorio Magno, Tommaso, e i papi Alessandro III, Callisto III, Sisto IV, Paolo III, Pio V, Urbano VIII, Innocenzo XI, Pio VI, Pio IX.

Questa conclusione lascia spazio a due domande non indifferenti, per le quali un’esaustiva risposta meriterebbe molte altre pagine di discussione.
Prima domanda: se il cristianesimo ha considerato ingiusto l’asservimento di persone innocenti sulla base dei principi della comune natura e originaria libertà, perché anche l’Islam (che condivide gli stessi principi) non è riuscito a produrre simili anticorpi teorici contro la schiavitù? Nello specifico, perché per secoli truppe e flotte islamiche hanno liberamente razziato e asservito pagani e cristiani, mentre i tentativi opposti da parte di potenze cristiane sono andati incontro a (fattivamente inutili) condanne religiose? Perché sono stati presenti dal medioevo istituti di redenzione cattolici che hanno fatto la spola con le coste nordafricane per redimere centinaia di migliaia di cristiani, mentre lo stesso non è avvenuto da parte islamica? Perché sono stati moschetti e fregate occidentali a porre fine alla tratta islamica nell’oceano Indiano, mentre il contrario non è accaduto con la tratta atlantica «cristiana»?

Una possibile risposta. È vero che le tre religioni monoteiste condividono la fede in un unico Creatore, per il quale tutti gli uomini sono naturalmente uguali. È vero anche che per esse la liberazione di uno schiavo è considerata un’azione moralmente meritoria, al pari dell’elemosina ai poveri. Ma è vero soprattutto che ad esempio Gesù, Pietro, Paolo, non possedettero schiavi, né esortarono a farlo per il presente o l’avvenire. Lo stesso non vale per Maometto e per gli insegnamenti contenuti nel Corano, i quali costituiscono l’unico piano normativo legittimo: la legge islamica (sharī’a) ha valore sia religioso che civile, è impensabile una scissione (come per la tradizione cristiana) tra diritto naturale e diritto positivo.

Seconda domanda: se il cattolicesimo ha continuamente riprovato la schiavitù ingiusta, cioè tratta, deportazione e asservimento di uomini donne e bambini innocenti, come mai in epoca moderna questa è stata la fisiologica costante dei possedimenti oltremare delle potenze cattoliche, nello specifico la nuova Spagna e soprattutto il Brasile portoghese?

Il motivo può essere cercato nelle pressioni per il mantenimento della schiavitù esercitate dalle autorità civili sulla Chiesa, la quale nei secoli è stata di fatto tutt’altro che autonoma e potente. In tal senso possono essere citati tre casi paradigmatici. L’anglosassone concilio di Berkhamsted (697), unico pronunciamento ecclesiale nel quale viene accettata (non legittimata, né esortata) la tratta -cioè che un servo sia rapito e rivenduto o venduto oltremare-, precisa che questa prassi «piacerà al re» (regi placuerit). Espressione anomala nei pronunciamenti conciliari: quando in essi viene citata un’auctoritas si legge piuttosto «in questo sacrosanto concilio decretiamo e stabiliamo che…», o simili. Quasi a dire che quei vescovi legittimarono la tratta schiavista, ma obtorto collo e a compiacimento del re. Ancora, nella Roma rinascimentale, che aveva da poco patito il «protestante» sacco del 1527, papa Paolo III con la Pastorale officium (1537) condannava con scomunica la schiavitù degli amerindi. Condanna che lo stesso papa dovette revocare l’anno seguente (Non indecens videtur, 1538) per la protesta dello spagnolo Carlo I.

Dello stesso papa, che evidentemente non era padrone neanche in casa sua, va ricordato il decreto di liberazione degli schiavi dell’urbe (Novimus quod, 1535), che fu poi costretto a ritrattare (1548) per le pressioni dei conservatori (governatori). Rodney Stark così commenta le ripetute e inconcludenti condanne: «Ciò dimostra chiaramente la debolezza dell’autorità papale in quell’epoca, non l’indifferenza della Chiesa di fronte al peccato della schiavitù». Le pressioni esercitate sui papi, che promulgarono comunque ripetuti divieti e ricorrenti condanne anche con scomunica, dovevano essere molto più forti ed efficaci sui vescovi locali che dovevano applicare tali provvedimenti, questo perché per secoli nella nomina e nel mantenimento della carica dei pastori locali un ruolo preponderante era giocato dai regnanti e dalle autorità civili (cf. la quarta delle piaghe della Chiesa descritte da Rosmini). Così i vescovi furono più attenti alle pressioni di latifondisti, fazendeiros terrieri e governatori locali, invece che alle condanne teologiche e morali del lontano vescovo di Roma. Non a caso, nel nuovo mondo i più fermi avversari di schiavitù e tratta non furono chierici diocesani ma esponenti di ordini religiosi, in primis domenicani (come Bartolomeo de las Casas) e gesuiti, legati in misura minore alle logiche secolari.

Roberto Reggi

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE