La IX Assemblea dei rappresentanti cattolici cinesi (27-29 dicembre) si è conclusa senza registrare scossoni o clamorosi colpi di scena rispetto alla tabella di marcia predisposta dalle autorità cinesi. In un clima che diversi presenti definiscono disteso, i 365 rappresentanti delle diocesi cattoliche di 31 province cinesi (59 vescovi, 164 preti, 30 religiose, 112 laici) hanno ascoltato i discorsi ufficiali di leader politici di alto rango, hanno avallato le nomine per il prossimo quinquennio ai vertici dell’Associazione patriottica e del Consiglio dei vescovi – gli organismi accreditati dalle autorità civili a mantenere la Chiesa entro i parametri della politica religiosa nazionale – e hanno preso atto delle modifiche messe in cantiere di alcuni articoli degli statuti dei due organismi, da ufficializzare entro un mese, alla fine di un processo di «revisione». Come anticipato da Vatican Insider, i vescovi Giuseppe Ma Yinglin (non riconosciuto dalla Santa Sede) e Giovanni Fang Xinhyao sono stati confermati rispettivamente come presidenti del Consiglio dei vescovi e della Associazione patriottica (Ap). Tra i 18 presidenti distribuiti tra i due organismi, figurano 9 vescovi riconosciuti da Roma, 5 vescovi ancora illegittimi (per alcuni dei quali è iniziato il processo di riconciliazione con la Sede Apostolica, dopo che loro hanno riconosciuto l’errore di aver accettato l’ordinazione episcopale senza il mandato apostolico), tre laici (compresa una donna) e una suora.
Lo scorso 19 dicembre, la Santa Sede aveva fatto sapere che avrebbe atteso di giudicare «in base ai fatti comprovati» lo svolgimento della IX Assemblea dei rappresentanti cattolici cinesi. L’interpretazione della congerie di affermazioni ufficiali e messaggi impliciti provenienti dal raduno richiederà tempo, così come la lettura dei discorsi ufficiali e la decifrazione dei cambiamenti apportati agli statuti. Ma già ora diversi dettagli aiutano a schivare l’onda d’urto e gli automatismi delle letture preconfezionate dominanti. E forniscono indizi preziosi anche sulla piega che potrebbero prendere i colloqui tra Cina popolare e Santa Sede riguardo alla condizione anomala del cattolicesimo cinese.
Il simulacro dell’indipendenza.
I discorsi e i testi ufficiali dell’Assemblea hanno riproposto parecchi riferimenti verbali all’indipendenza e all’autonomia che devono connotare il cattolicesimo cinese rispetto a entità straniere. Ma diversi partecipanti all’Assemblea riferiscono in maniera concorde l’impressione di una certa vaghezza percepita nei richiami protocollari alle categorie di indipendenza e autonomia. Il Presidente dell’Amministrazione statale degli affari Religiosi (Sara) Wang Zuoan, nel suo discorso di apertura, ha fatto un accenno generico ai principi di autonomia e indipendenza che «devono presiedere la politica religiosa della Cina». Mentre giovedì scorso Yu Zhengsheng, Membro del Consiglio permanente dell’Ufficio politico del partito comunista e Presidente del comitato nazionale della Conferenza politica consultiva del popolo cinese, quando ha ricevuto nell’aula del Popolo i rappresentanti cattolici cinesi, ha ripetuto che la Chiesa cattolica cinese deve «aderire al principio del’amministrazione autonoma, deve occuparsi degli affari religiosi in maniera indipendente», allo scopo di «combinare il patriottismo al proprio fervore per la Chiesa» così da offrire il proprio contributo alla costruzione del «socialismo a caratteristiche cinesi». Ma al di là dalle dichiarazioni di rito, non è stata enfatizzata nessuna applicazione pratica di tali linee di principio alla vita reale della Chiesa. Lo stesso Xi, con un linguaggio più da psicologia del profondo che da strategia politica ecclesiastica ha dichiarato che il muoversi “indipendente” della Chiesa in Cina è una base irrinuniciabile per vivere e far crescere la propria autostima e la fiducia in se stessi. Soprattutto – riferiscono vescovi presenti all’Assemblea – nei discorsi, nei testi e negli interventi ufficiali è stata evitata qualsiasi citazione relativa all’auto-elezione e auto-ordinazione dei vescovi cinesi, che in passato veniva ricordata dagli apparati collegati al governo a ogni pie’ sospinto. Indizio plausibile – suggeriscono «sinologi» cattolici di lungo percorso – che il governo, senza proclami, prepara il terreno a una modalità di selezione e ordinazione episcopale da realizzare con il consenso e il riconoscimento ineludibile del Vescovo di Roma. Per questa via, l’effetto più grave dell’applicazione dei principi di indipendenza alla vita della Chiesa potrebbe essere disinnescato.
Negli ultimi lustri, le auto-consacrazioni episcopali illegittime sono state usate dalla politica religiosa cinese per colpire la Chiesa e la Santa Sede lì dove faceva più male, quando c’era l’intenzione di mandare messaggi chiari e forti nelle fasi di contrapposizione più dura con il Vaticano. Se si rinuncia allo strumento delle auto-ordinazioni, tutto il lessico costruito intorno all’indipendenza della Chiesa in Cina perde forza e contenuto, anche se dovesse rimanere in piedi ancora per lungo tempo, come vuoto simulacro.
Nuova parola chiave: Sinizzazione.
Se le espressioni sull’indipendenza sembrano perdere consistenza, la formula chiave su cui ora sembrano puntare gli apparati cinesi è quella della «Sinizzazione». L’aveva tirata fuori il Presidente Xi Jinping nel discorso del maggio 2015, quando in un incontro con i rappresentanti del Fronte Unito aveva ribadito che «in Cina le attività religiose devono essere “cinesi”». E conviene valorizzare «le personalità religiose» sollecitando il loro impegno «a promuovere lo sviluppo economico, l’armonia sociale, la prosperità culturale e l’unità nazionale, a servizio della Patria». Adesso, gli apparati e le procedure iniziano a sintonizzarsi con la formula lanciata dal Presidente cinese, che si presenta meno irritante e problematica anche dal punto di vista della dottrina cattolica: «In Cina» aveva detto nel gennaio 2016 a Vatican Insider il cardinale John Tong, vescovo di Hong Kong «la Chiesa non solo “può” cinesizzarsi, ma in un certo senso “deve” farlo. È quasi indispensabile che si “cinesizzi”, anche per compiere la sua missione di annuncio».
La comunione con il Successore di Pietro.
Indiscrezioni filtrate dall’Assemblea confermano che negli statuti del Consiglio dei vescovi cinese – organismo non riconosciuto come corpo episcopale dalla Santa Sede – rimane esplicitamente affermata la comunione sacramentale con il Papa, e si fa riferimento a una distinzione – sia pur espressa in forma generica – tra lo spirito di autonomia da imput esterni e di sottomissione agli apparati civili – richiesto nella sfera economica, sociale e amministrativa – e il vincolo di comunione e di sequela da mantenere con il Vescovo di Roma nelle questioni che toccano la fede, la disciplina morale e la missione di evangelizzazione: «Per quanto riguarda la fede e l’opera di evangelizzazione» si legge in un articolo degli statuti rivisti e in via di ufficializzazione «il Consiglio dei vescovi cinesi esercita la missione pastorale secondo il mandato di Nostro Signore Gesù Cristo conferito agli Apostoli, e con la potestà conferita agli Apostoli dallo Spirito Santo; per quanto riguarda il campo della dottrina delle cose di fede e della disciplina dei comportamenti da seguire, il Consiglio dei vescovi mantiene la comunione con Pietro, capo degli apostoli e il Successore di Pietro; per quanto riguarda gli aspetti organizzativi e sociali, risponde all’Assemblea dei rappresentanti dei cattolici cinesi».
Niente attacchi ai «clandestini».
Dalle diverse fonti sembra confermato il linguaggio non polemico nè aggressivo riservato dai responsabili degli apparati cinesi nei confronti della Santa Sede e dei cattolici cosiddetti «clandestini» – vescovi, sacerdoti e laici – che si sottraggono alle regole invasive della politica religiosa governativa. Nel discorso inaugurale Wang Zuoan, direttore dell’Amministrazione statale per gli affari religiosi (Sara) ha sottolineato che in Cina c’è «una sola Chiesa cattolica», e ha ribadito la volontà della Cina popolare di avere «colloqui costruttivi con il Vaticano per diminuire le differenze, far crescere il consenso e promuovere relazioni migliori», esprimendo anche la speranza che il Vaticano «adotti una attitudine più flessibile e pragmatica» allo scopo di migliorare le relazioni bilaterali. In altri interventi, come quello di Chen Zong Rong, vice-direttore della Sara, si sono fatti riferimenti non animosi all’urgenza di superare le divisioni con i «clandestini» per far crescere insieme le comunità cattoliche cinesi. Mentre il membro del Comitato centrale dell’ufficio politico Yu Zhengsheng, nell’incontro coi rappresentanti cattolici nella Sala del popolo, ha sottolineato che il «lavoro religioso in Cina è entrato in una nuova fase» e i nuovi responsabili scelti per i diversi organismi sono chiamati a operare e dare ai cattolici indicazioni in linea col principio «ama il Paese, e ama la Chiesa». Un articolo rivisto dello statuto del Consiglio dei vescovi indica il Ministero degli affari civili come organismo responsabile riguardo alla «registrazione»: se questo passaggio indicasse l’intenzione di affidare la competenza della registrazione delle comunità e del clero al Ministero degli affari civili e non alla Associazione Patriottica, questo cambiamento potrebbe far cadere in molte comunità clandestine il rifiuto finora manifestato a farsi registrare presso gli organismi «patriottici», considerati incompatibili con la natura della Chiesa proprio in virtà della loro pretesa natura «ecclesiale».
Solo uno studio approfondito dei discorsi e delle modifiche agli statuti, messi a confronto con le precedenti assemblee, potrà comunque aiutare a cogliere la portata di cambiamenti sia pur piccoli, e soprattutto la direzione di marcia da essi suggerita. Tenendo sempre presente che la rotta di un bastimento non si corregge con una grande virata, ma con dei piccoli tocchi.
Il principio di indipendenza era storicamente alla base di tutta la politica religiosa cinese e delle strutture dei vari organismi (Sara, Ap, Assemblea dei rappresentanti cattolici cinesi). Chiedere che il principio di indipendenza fosse abolito del tutto a priori, prima di iniziare ogni tipo di dialogo, sarebbe stato utopico. Era questa l’intuizione espressa già nella Lettera di Papa Benedetto XVI ai cattolici cinesi del 2007, dove il Vescovo di Roma, dopo aver esposto la dottrina cattolica e aver detto quello che nei principi degli organismi patriottici appare incompatibile con la dottrina cattolica, aveva comunque espresso la diponibilità a dialogare con le autorità cinesi «per risolvere alcune questioni riguardanti sia la scelta dei candidati all’episcopato sia la pubblicazione della nomina dei Vescovi sia il riconoscimento — agli effetti civili in quanto necessari — del nuovo Vescovo da parte delle Autorità civili» ( n.9 ). È quello che sta succedendo adesso, mentre Papa Francesco suggerisce a tutta la Chiesa che i piccoli passi aprono processi, che «il tempo è superiore allo spazio» e che questo principio «permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone» (Evangelii gaudium, 223).