Si possono «celebrare messe in forma privata», ma non è accettabile, anzi, è scandaloso «invitare una comunità a ricordare chi è responsabile di soprusi». Perché la violenza mai è compatibile col Vangelo. È lapidario don Luigi Ciotti, fondatore e presidente di Libera, associazione contro le mafie: don Michele delle Foglie, parroco di Grumo Appula, in provincia di Bari, non doveva chiamare a raccolta – addirittura con un manifesto – la popolazione a una celebrazione a suffragio di Rocco Sollecito, presunto boss della ’ndrangheta ucciso a maggio in Canada.
Don Ciotti, come descrive la decisione di don delle Foglie?
«Come monsignor Cacucci, vescovo di Bari-Bitonto».
Francesco Cacucci ha parlato di «grave scandalo». Il parroco si è difeso così: «Le messe non si celebrano in onore ma a suffragio dei defunti e quanto più si è peccatori tanto si chiede la misericordia di Dio». Ha ragione Cacucci?
«Nessuno impedisce di celebrare messe in forma privata. I famigliari hanno tutto il diritto di pregare per i loro congiunti. Altro conto è invitare un’intera comunità a ricordare persone responsabili soprusi. La violenza è incompatibile col Vangelo».
E la misericordia?
«Il Papa ha detto: “Più grande è il peccato, maggiore deve essere l’amore per coloro che si convertono”. Ha messo cioè l’accento sulla conversione, prodigio del cuore e della coscienza capace di trasformare il male in bene. Non risulta che in questo caso ci siano stati segni di conversione, o quantomeno non ci si è richiamati a questo per giustificare la scelta di una messa celebrata in forma pubblica».
Ieri c’è stato chi ha sostenuto che occorre considerare la pericolosità di quei territori, in cui per vicende così ci si può trovare la chiesa bruciata: è una giustificazione valida?
«No. Nella storia della Chiesa, dal ‘900 a oggi, non si contano i preti minacciati dalle mafie. Padre Puglisi e don Diana sono stati assassinati. Di Puglisi, Francesco Marino Mannoia, boss divenuto collaboratore di giustizia, disse che era un “prete che interferiva, che rompeva le scatole”. Credo che quelle vicende non siano passate invano, che siano state occasioni di cambiamento». ?
In che senso?
«Oggi la Chiesa è consapevole, tranne eccezioni, che fedeltà al Vangelo significa anche “interferire”, parlare chiaro, dire no alle mafie e a chi alle mafie presta il fianco, di conseguenza impegnarsi per la libertà delle persone, calpestate da mafiosi e corrotti. Chi denuncia oggi non è più solo, a maggior ragione dopo le parole dei Papi».
Ecco, i pontefici: come si conciliano l’appello di Wojtyla del 1993 – «Mafiosi convertitevi, una volta verrà il giudizio di Dio» – e la «scomunica» di Francesco del 2014, con la misericordia divina che non esclude nessuno, come lo stesso Bergoglio ricorda continuamente?
«È una contraddizione solo apparente. Francesco ci ricorda che “il perdono di Dio per i nostri peccati non conosce confini”, ma con la stessa forza ci ricorda che certi peccati ci pongono al di fuori dalla comunione con Dio, che va ritrovata attraverso la conversione. Le parole pronunciate il 21 giugno 2014, nella Messa nella Piana di Sibari, in Calabria, sono in questo senso inequivocabili: “La mafia è adorazione del male e disprezzo del bene comune (…) Coloro che nella loro vita percorrono la strada del male, come i mafiosi, non sono in comunione con Dio, sono scomunicati”».
Sono «irrecuperabili»?
«La scomunica non è una condanna definitiva laddove emerge in chi ha commesso il male l’intenzione sincera, e concreta, di cambiare strada, diventando una persona che ama Dio attraverso gli uomini e gli uomini attraverso Dio».
Questo articolo è stato pubblicato nell’edizione odierna del quotidiano La Stampa