Pubblicati anche in Italia il primo volume degli scritti del Papa professore al e sul Concilio Vaticano II. 726 pagine cariche di suggestioni per il presente della Chiesadi Gianni Valente
Per Joseph Ratzinger, il Concilio Vaticano II è stato un destino. Da consulente teologico del cardinale Frings, ha vissuto le quattro sessioni di quella grande avventura immerso nel ritmo mozzafiato di iniziative, sessioni di lavoro, brainstorming e elaborazioni di documenti a stretto contatto coi più grandi vescovi e teologi del XX Secolo, da Congar a Rahner, da Frings a Volk, da De Lubac a Danièlou. Da cardinale Prefetto dell’ex Sant’Uffizio ha legato il suo nome al Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 1992 per riproporre in maniera sistematica il depositum fidei alla luce del Vaticano II. Da Papa ha provato a risanare lo scisma coi tradizionalisti lefebvriani, esponendosi alle accusa di aver aperto alla “Chiesa dell’ “anticoncilio”. L’entusiasta sostenitore della riforma conciliare, una volta divenuto Successore di Pietro, ha anche rivendicato una appropriata “ermeneutica” del Concilio Vaticano II, ripetendo che quella riforma non comportava alcuna alterazione genetica della Chiesa. Ma proprio la centralità del Vaticano II nel cammino percorso da Joseph Ratzinger è diventata talvolta un dato enigmatico, tutto da decifrare. In molti, per anni, si sono applicati a misurare la “coerenza” del percorso ratzingeriano, magari per rinfacciare a Ratzinger imbarazzanti cambi di casacca, rivelatori di tardivi pentitismi, oppure – su fronti opposti – con l’intento di insinuare una perdurante pulsione “modernista” rimasta attiva sotto le movenze crucciate talvolta assunte quando era custode della ortodossia cattolica.
Finalmente la pubblicazione anche in Italia del primo tomo degli scritti di Joseph Ratzinger al e sul Vaticano II, raccolti nel VII volume dell’Opera Omnia curata dalla Libreria Editrice Vaticana (traduzione di Pierluca Azzaro, revisione di Lorenzo Cappelletti), consente di attingere “sine glossa” all’intensità con cui il Papa emerito ha vissuto il Concilio e tutte le sue conseguenze. Davanti al fiume di parole incandescenti sgorgate “in diretta” mentre era immerso in quel grande evento ecclesiale restano al palo tante estenuanti discussioni sull’ermeneutica (del Concilio e del pensiero di Ratzinger). E soprattutto, disseminate nelle 726 pagine della raccolta di testi, si incontrano una moltitudine di intuizioni e scoperte cariche di suggestioni per il presente della Chiesa.
La confortante attualità ecclesiale degli scritti conciliari di Joseph Ratzingernon si esaurisce nelle assonanze di fondo tra le intuizioni e gli entusiasmi del giovane professore di teologia di allora e il sensus Ecclesiae dell’ottuagenario Papa Francesco.La freschezza e l’attualità delle pagine sgorgano da quella che Ratzinger indicava già allora come autentica sorgente della riforma conciliare. La stessa che nutre oggi la «conversione pastorale» suggerita dall’attuale Successore di Pietro, e suscita anche oggi resistenze sorde e sabotaggi organizzati.
C’è un passo degli scritti sul Concilio appena pubblicati in cui Joseph Ratzinger coglie e descrive con nitida e attualissima intuizione i reali contorni della partita conciliare. E le dinamiche da lui delineate allora sembrano molto simili a quelle che muovono e agitano gli scenari ecclesiali di oggi. La felice intuizione si ritrova nel suo resoconto del terzo periodo conciliare, nella pagine che dedica alla “Nota esplicativa previa”, il testo firmato dal cardinale Pericle Felici per spiegare i criteri con cui andavano letti i passaggi sulla collegialità episcopale contenuti nella Costituzione apostolica Lumen Gentium: quelli che la minoranza conciliare non aveva mai smesso di contestare, indicandoli come un possibile fattore di depotenziamento dell’autorità papale.
Secondo Ratzinger, all’ombra della Nota previa – che lui non apprezzava affatto – si erano delineate con chiarezza le due opzioni di fondo che si fronteggiavano al Concilio: da un lato, «un pensiero che parte da tutta la vastità della Tradizione cristiana, e in base a essa cerca di descrivere la costante ampiezza delle possibilità ecclesiali». Dall’altra parte «un pensiero puramente sistematico, che ammette soltanto la presente forma giuridica della Chiesa come criterio delle sue riflessioni, e quindi necessariamente teme che qualsiasi movimento al di fuori di essa sia cadere nel vuoto» (471).
Il «conservatorismo» della seconda opzione, a giudizio di Ratzinger, si radicava «nella sua estraneità alla storia e quindi in fondo in una “carenza” di Tradizione, cioè di apertura verso l’insieme della storia cristiana» (471). La descrizione fattuale di Ratzinger rovesciava già allora lo schema preconfezionato che andava descrivendo il Concilio in corso d’opera come un conflitto tra “conservatori” in ansia per i possibili “strappi” dalla Tradizione e “progressisti” condizionati da pulsioni moderniste. Le cose – spiegava Ratzinger – stavano esattamente al contrario: erano quelli etichettati come “progressisti”, o perlomeno «la parte prevalente di loro» che stava lavorando per favorire un «ritorno all’ampiezza e alla ricchezza di ciò che è stato tramandato». Essi ritrovavano le sorgenti del rinnovamento da loro auspicato proprio nella «intrinseca larghezza propria della Chiesa» (471).
Succede anche oggi, nella Chiesa, che a sventolare a sproposito dottrina e Tradizione sono proprio quelli che resistono alla Chiesa che cammina nella semplicità della Tradizione.
Il desiderio di ritornare alle sorgenti per godere di tutta «l’ampiezza e la ricchezza di ciò che è stato tramandato», è la filigrana tenace che attraversa tutti i contributi e gli interventi offerti da Ratzinger al grande lavoro del Concilio: da quelli sulla Divina Rivelazione a quelli sulla missione, da quelli – critici – sulle venature “ottimiste” della Costituzione Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo a quelli – ricchissimi – da lui prodotti intorno alla “battaglia cruciale” sulla collegialità episcopale nella Chiesa, tutti rivolti ad attestare e documentare che la dottrina della collegialità non è un nuovismo teologico, ma fa parte della Tradizione. A chi continuava allora a sostenere che i termini Collegio e collegialità non si rintracciano nei vangeli, Ratzinger, insieme ai colleghi teologi Karl Rahner e Gustave Martelet, allora faceva notare che lo stesso vale per i termini «Primato» e «Infallibilità». «La Tradizione e il magistero» scriveva allora il futuro Papa Benedetto «devono sempre sviluppare il germe contenuto nella Scrittura» (210). Perché la Chiesa, Sposa di Cristo, non è una entità sacrale autosufficiente, al di fuori del tempo e dello spazio, che occorre difendere a tutti i costi da qualsiasi tipo di critica. Essa riconosce sé stessa come una realtà che cammina nella storia rimanendo dipendente passo dopo passo dalla grazia operante di Cristo, «continuamente bisognosa di rinnovamento», posta «sotto il segno della debolezza e del peccato», e che per questo «ha sempre bisogno della tenerezza di Dio che la perdona».