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“C’è una guerra tra musulmani, i cristiani fuggiti non torneranno”

Vatican Insider - pubblicato il 07/12/16

«Le ideologie che hanno distrutto Siria e Iraq stanno arrivando anche da noi, in Giordania. Il fondamentalismo dei giovani fa paura». Pierbattista Pizzaballa, da poco insediatosi come amministratore apostolico del patriarcato latino di Gerusalemme, è arrivato a casa, a Bergamo, per partecipare a un convegno promosso dalla Fondazione Papa Giovanni XXIII per presentare il volume dell’opera omnia sul Papa Buono «A.G. Roncalli – Giovanni XXIII» dedicato agli anni 1911-1912. Vatican Insider lo ha intervistato. 

Come sono state queste prime settimane? Com’è stato accolto dal clero arabo un amministratore del patriarcato di origini italiane, dopo due patriarchi arabi?

«Tutto sommato sono stato accolto bene. Sto facendo il giro delle parrocchie: non una visita pastorale, ma un incontro con i preti per vedere da vicino la realtà e conoscere i problemi. Ho trovato tanta disponibilità. Mi sembra che abbiano compreso le ragioni mia venuta. C’è molto da fare naturalmente, in ambito organizzativo, amministrativo e pastorale. Ma vedo che c’è tanta buona volontà. Ci sono preti molto giovani, che hanno bisogno di essere accompagnati».  

Perché il Papa ha mandato lei?

«Bisognerebbe chiederglielo, non so esattamente quali siano stati i criteri che hanno portato alla sua scelta. Credo che lo scopo sia semplicemente quello di aiutare a riorganizzare un po’ la diocesi, dal punto di vista amministrativo e organizzativo, anche sulla base della mia esperienza precedente come Custode di Terra Santa. E poi di individuare alcune linee di orientamento per il futuro, perché anche il Medio Oriente sta cambiando. È un periodo di transizione». 

Come sta cambiando il Medio Oriente?

«Ogni giorno si legge purtroppo sui giornali ciò che sta accadendo. La nostra diocesi grazie a Dio, è un po’ meno coinvolta, non viviamo le tragedie della Siria e dell’Iraq. Ma anche da noi c’è comunque un’influenza diretta di quegli eventi: ci sono milioni di profughi che hanno cambiato il volto delle nostre parrocchie. E poi le ideologie che hanno distrutto quei Paesi sono arrivate anche da noi, in qualche modo». 

A che cosa si riferisce?

«Le giovani generazioni stanno cambiando, il fondamentalismo è arrivato anche in Giordania e fa paura. Poi i giovani non hanno più il rapporto che avevano i loro padri con la Chiesa. Hanno un rapporto più emancipato, soprattutto in Giordania e Israele. Il che richiede risposte pastorali diversificate. La diocesi del patriarcato latino di Gerusalemme si estende in quattro diversi Paesi: Giordania, Israele, Palestina e Cipro. Non si può fare un piano pastorale univoco, bisogna pensare alle diverse zone e alle diverse esigenze e questo richiede una profonda riflessione da parte del clero». 

A che punto è – o non è – il dialogo tra israeliani e palestinesi?

«Bisogna essere sinceri: in questo momento non c’è niente. Col dovuto rispetto mi pare che non si possa parlare di alcuna forma di negoziato, né di pace né di altro. Ci sono dei contatti minimi per le questioni di tipo tecnico, come i passaggi da una zona all’altra, ma a livello politico non vedo assolutamente nulla». 

E questo perché?

«Per tante ragioni. La mancanza di volontà da entrambe le parti, Israele si sta spostando a destra, i palestinesi sono divisi, la comunità internazionale si è forse stancata dell’argomento, tanto più che oggi ci sono problemi più gravi e urgenti, come i conflitti in Siria e in Iraq. Tutto queste concause fanno sì che tutto sia fermo in questo momento». 

Come viene vista l’elezione di Donald Trump?

«Come dappertutto, c’è chi è contento e chi è scontento. Molte persone e molti osservatori sono curiosi a di capire come agirà, perché è un po’ sconosciuto. A parte le frasi ad effetto in campagna elettorale, bisognerà ora vedere quali saranno i suoi collaboratori e quali le decisioni che prenderà. C’è curiosità». 

Si è parlato di un appoggio di Trump alle nuove colonie israeliane. Quanto incidono nel rapporto tra israeliani e palestinesi?

«Il problema delle colonie incide enormemente, è una ferita che invece di guarire si approfondisce sempre di più, e rende se non impossibile almeno difficile qualsiasi accordo futuro».  

È dunque tramontata l’idea dei due popoli e dei due Stati?

«Questo non si può dire. Ma la strada è in salita…» 

Come vede, dal suo osservatorio, la situazione in Siria?

«La situazione è tragica, è un Paese che non c’è più, è distrutto. Sappiamo come andrà a finire ormai: è chiaro che l’Iran, Assad e Putin avranno l’ultima parola, però a che prezzo? Il Paese è distrutto, ma non solo nelle infrastrutture. È distrutto anche nelle relazioni tra le diverse comunità. C’è un odio profondo, sarà tutto da ricostruire e non si sa ancora quando e in che modo. Non credo che i cristiani che se ne sono andati avranno ancora molta voglia di scommettere il loro futuro lì. Lo stesso sta accadendo con l’Iraq». 

I profughi iracheni in Giordania, scappati da Mosul dicono che non si fidano a tornare…

«Ero in Giordania fino all’altro giorno. Sono andato a vedere una scuola dove c’erano bambini iracheni profughi. In un momento di pausa ho chiesto alle insegnanti: che programma fate, quello giordano o quello iracheno? Si sono messe a ridere e mi hanno risposto: “Quello britannico! Andremo tutti via…”». I militari non possono fare la pace, ma soltanto vincere una guerra. Per la pace ci vuole la politica che non c’è e non si sa bene ciò che ci sarà. I cristiani dopo quello che hanno visto… Se sono andati via, difficilmente torneranno».  

Come vivono i cristiani questa situazione?

«Da un lato ci sono paure e preoccupazioni per il futuro. Questa guerra, questo tipo di guerra con sfondo religioso, ha fatto saltare tutti i riferimenti per la comunità cristiana. Vedo tanta preoccupazione. Dall’altro lato mi dico, guardando la storia, che non è la prima volta che ci troviamo in questa situazione in Medio Oriente. Penso ad esempio a 100 anni fa, a quanto accadde con gli armeni. Ci sono state ferite profonde ma parafrasando san Paolo, i cristiani sono stati battuti e umiliati, ma non sono stati finiti». 

Ma i cristiani sono nel mirino?

«Bisogna dire che quella che è in atto è innanzitutto una guerra fra musulmani. Poi ciascuno vede tutto dalla propria prospettiva. I cristiani in quei paesi si sentono oggetto dell’odio del mondo. Ma anche i musulmani, d’altra parte, avvertono questo e si sentono oggetto dell’odio del mondo. È una guerra tra musulmani che ha queste tristi conseguenze per i cristiani. Ci sono forme di fondamentalismo, pensiamo al Daesh… Ma, ripeto, è innanzitutto una guerra tra loro».  

Quali sono le vere motivazioni di questa guerra?

«Una guerra combattuta con armi che arrivano dall’Occidente… Sono tante le motivazioni: lo scontro di potere tra sunniti e sciiti, poi c’è la questione energetica, che vuol dire non soltanto l’accesso alle fonti di energia ma anche il come trasportarle e infine il controllo sul Medio Oriente. Poi ci sono le posizioni dei Paesi occidentali e orientali che si sono divisi tra di loro». 

In Europa arrivano i profughi di questa guerra…

«Sarebbero venuti comunque, non con questi numeri. Stiamo parlando di Paesi che hanno un cinquanta per cento di popolazione con meno di trent’anni, con una disoccupazione altissima. Questi giovani attraverso i media vedono nell’Europa l’Eldorado». 

Che cosa dovrebbe fare l’Europa per il Medio Oriente?

«Non lo so, forse è utopico, ma vorrei che dire che cosa avrebbe dovuto fare. Avrebbe dovuto accompagnare questi paesi nel loro sviluppo e nella loro crescita. Penso alla Siria, all’Iraq e anche all’Egitto, grandi Paesi che sono rimasti fermi dal punto di vista dello sviluppo economico e sociale». 

Come cristiani di Terra Santa e del Medio Oriente vi sentite accompagnati e aiutati dalle altre Chiese?

«Sarebbe ingiusto dire che ci sentiamo abbandonati. Anche se tutto è perfettibile, devo dire guardando a quanto accade in Siria e Iraq che la Chiesa universale e la Caritas stanno facendo moltissimo». 

A che punto siamo con la lunga, lunghissima trattativa per l’accordo fiscale e amministrativo tra la Chiesa cattolica e lo Stato di Israele?

«I negoziati sono ripresi questo mese, mi pare con buona volontà, è un buon segno. Abbiamo visto diverse volte queste riprese e ci auguriamo che porti a soluzioni reali. Dopo tante esperienze rimaste sospese, nessuno ha voglia di azzardare giudizi e previsioni, anche se ho visto da entrambi i lati, buona volontà. È tempo di concludere, ci sono tanti problemi dal punto di vista fiscale e amministrativo che devono essere risolti». 

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