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Una missionaria: “In Sinai migranti torturati per estorcere riscatti”

Vatican Insider - pubblicato il 02/12/16

«Nel Sinai esistono almeno 15 campi di prigionia dove un gran numero di migranti, dopo essere stati rapiti, vengono rinchiusi e sistematicamente torturati da trafficanti che chiedono alle famiglie riscatti di decine di migliaia di dollari. Nella stragrande maggioranza sono africani di un’età compresa tra i 10 e i 30 anni».  

È una frase shock, che lascia poco spazio all’immaginazione e riporta con violenza l’attenzione sugli infiniti, insospettabili aspetti drammatici che caratterizzano i cosiddetti ‘viaggi della speranza’. A pronunciarla è Suor Azezet Kidane, una missionaria comboniana eritrea in servizio in Palestina, da anni impegnata come attivista di Medici per i Diritti Umani-Israele (PHR-Israel). È lei, incaricata di svolgere il penoso compito di raccogliere le testimonianze dei profughi al confine tra Sinai e Israele, che squarcia il velo su una delle questioni più inquietanti del fenomeno delle migrazioni forzate. «Quando sono arrivata qui alla fine del 2010 il responsabile della ONG con cui collaboro, mi ha chiesto se potevo intervistare tutti i nuovi migranti che arrivavano in Israele. Grazie alla mia conoscenza dell’amarico, il tigrino, l’arabo e l’inglese, riuscivo a parlare con centinaia di persone e documentare quello che avevano subìto prima di giungere qui. Tutti i migranti, in gran parte eritrei, sudanesi, ivoriani e nigeriani, riferivano di trattamenti di una crudeltà estrema, avevano segni indelebili sul corpo, erano terrorizzati, rifiutavano il contatto e, nel caso delle donne, chiedevano molto spesso di abortire. Capimmo subito che stava avvenendo qualcosa di terribile».  

Da quel momento in poi, varie ONG, a cominciare da PHR-Israel, hanno iniziato un’attività sistematica di ricostruzione delle vicende che i migranti riportavano, hanno mappato i centri di detenzione e tortura, riuscendone a individuare 15 sparsi nella Penisola del Sinai, e impostato un grande lavoro che punta al recupero medico-psicologico delle vittime e a una sempre più diffusa awareness del fenomeno in Israele e nel mondo. 

Dalla caduta di Hosni Mubarak a oggi, il Sinai si sta sempre di più trasformando in una terra di nessuno dove avvengono traffici illeciti di ogni tipo. Organizzazioni criminali in accordo con alcune tribù beduine, stanno letteralmente trasformando l’area in una regione semiautonoma e assumendo il controllo di gran parte della Penisola. Uno dei commerci più fruttuosi è senza dubbio quello che lucra sugli esseri umani, in particolare i migranti forzati. Secondo quanto riportato da ONG israeliane e internazionali, disseminati in tutta l’area, sorgono veri e propri campi di tortura in cui giacciono imprigionati profughi africani. Alcuni sono stati rapiti lungo il viaggio che aveva come meta Israele, molti altri, direttamente dai campi profughi in Sudan o Etiopia e venduti a trafficanti sinaiti. Dai campi di prigionia, i trafficanti contattano le famiglie e chiedono di pagare cifre esorbitanti sotto la minaccia della tortura o della morte nei confronti dei loro congiunti rapiti. Chi paga – ottenendo i soldi da parenti che vendono case e ogni tipo di averi finendo in miseria – sebbene ridotto spesso a larva dopo mesi di stenti e violenze, si salva e viene condotto in Israele dove va a scontrarsi con una politica di asilo e accoglienza davvero preoccupante. 

«In Israele – si legge nel documento Not Passive Victims pubblicato nell’agosto del 2016 da PHR-Israel – i sopravvissuti dei campi di tortura nel Sinai sono richiedenti asilo che lo Stato considera “infiltrati” (è la dicitura ufficiale, ndr). Vivono in Israele senza alcuno status che gli permetta di avere accesso ai servizi sanitari se non di emergenza». «Dopo 5 anni di permanenza in Israele – riprende Suor Azezet – i richiedenti asilo vengono messi davanti a un bivio: accettare 3500 dollari e venire deportati in Paesi terzi (che in genere sono Uganda e Rwanda, ma a loro non viene detto), oppure andare in prigione. Alcuni, soprattutto uomini, accettano i soldi, lasciano il resto della famiglia e partono. Ma non volendo rimanere in quei Paesi, utilizzano i soldi per provare nuovamente il viaggio verso l’Europa. Una giostra macabra sulla pelle di povera gente».  

«Sono stato rapito di notte in un campo profughi in Sudan – è la testimonianza di un eritreo raccolta da Hotline for Refugees and Migrants, una delle organizzazioni più attive in Israele sul fronte dell’assistenza ai migranti -. Eravamo un gruppo di eritrei e sudanesi e ci hanno condotto direttamente nel Sinai dopo un viaggio di 4 giorni. Arrivati, dopo averci bendato e incatenato mani e piedi, ci hanno chiesto 33mila dollari e cominciato a picchiarci e torturarci; usavano le scosse elettriche, davano fuoco a parti del nostro corpo o ci colpivano con un bastone sulla pianta dei piedi. Alcuni dei miei compagni sono morti poco dopo l’arrivo». “Noi siamo stati presi al confine tra Eritrea e Sudan – racconta una giovane eritrea – in tutto eravamo 120 persone, prima ci hanno chiuso in un edificio a Kassala, poi ci hanno portato nel Sinai. Siamo stati tutti torturati e violentati, anche gli uomini. Mi hanno rilasciato dopo 3 mesi e il pagamento di 25mila dollari». 

Si calcola che dei 45.000 richiedenti asilo africani attualmente in Israele, siano tra i 5000 e i 7000 quelli passati per il Sinai e torturati. La chiusura del confine tra Israele e Sinai nel 2013, ha solo ridotto il flusso verso lo Stato ebraico, non certo il drammatico fenomeno: nel Sinai, infatti, continuano rapimenti e torture.  

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