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Turoldo, 1945: l’Europa non può essere che cristiana o non essere

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Vatican Insider - pubblicato il 18/11/16
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«Poeta, profeta, disturbatore delle coscienze, uomo di fede, uomo di Dio, amico di tutti gli uomini»: con queste parole il cardinale Carlo Maria Martini ritraeva David Maria Turoldo, l’indimenticato sacerdote friulano e frate dei Servi di Maria, «servo e ministro della Parola» (come si descriveva), di cui il 22 novembre ricorre il centenario della nascita. Di lui il critico letterario Carlo Bo ebbe a dire: «Padre David ha avuto da Dio due doni: la fede e la poesia. Dandogli la fede, gli ha imposto di cantarla tutti i giorni».  

Nato a Coderno di Sedegliano, piccolo paese in provincia di Udine, Turoldo aveva pronunciato i voti solenni nell’Ordine dei Servi di Maria nel 1938 e due anni dopo venne ordinato sacerdote. Nel 1941 fu mandato a Milano, al convento di san Carlo al Corso, per completare la formazione culturale. Iscrittosi all’università Cattolica – dove si sarebbe laureato in filosofia, sotto la guida di Gustavo Bontadini, nel 1946 – si impegnò nella Resistenza lombarda, collaborando al giornale preparato presso il convento dei Servi: “L’Uomo”. Nato dopo l’8 settembre 1943, il giornale uscì clandestinamente con periodicità irregolare; nell’Italia liberata proseguì le pubblicazioni – con il sottotitolo “Pagine di vita morale” – sino al 1° settembre 1946 come settimanale prima e quindicinale poi. Oltre a padre Turoldo e al confratello Camillo De Piaz, vi collaboravano fra gli altri: Dino Del Bo, Mario Apollonio, Angelo Romanò, Luigi Santucci, Gustavo Bontadini, Vincenzo Bennigartner; un gruppo di amici, molti dei quali legati all’università Cattolica.  

In occasione del centenario della nascita pubblichiamo un articolo di padre Turoldo intitolato “La presenza della Chiesa” che apparve su “L’Uomo” il 29 dicembre 1945. Direttori del giornale erano allora: Mario Apollonio, Gustavo Bontadini e Dino del Bo.  

Sulle pagine de “L’Uomo” videro la luce anche le prime poesie scritte da padre David: ne proponiamo due che non sono incluse nell’ampia antologia “O sensi miei… Poesie 1948-1988” (Rizzoli), né in “Luminoso vuoto” (Servitium), il volume uscito pochi giorni fa, a cura di Giorgio Luzzi, che raccoglie esclusivamente gli scritti composti da padre Turoldo negli ultimi mesi – in alcuni casi negli ultimi giorni – di vita (morì a Milano il 6 febbraio 1992). 

LA PRESENZA DELLA CHIESA  

di David Maria Turoldo  

Martinetti ebbe a scrivere che «la Chiesa Cattolica è la più abile organizzazione politica del mondo». E ciò è vero, soprattutto se, all’abilità, supponiamo un fondamento, che è essenziale alla Chiesa, di saggezza e di umanità. Noi quindi in questo non includiamo un senso di rammarico di troppi non sufficientemente umili da accettare tale asserto, chè, anzi, siamo certi della provvidenzialità del medesimo, e non esitiamo ad invocare una maggior sapienza e una maggiore umanità in tutti gli istituti politici e soprattutto nei governanti e nei partiti che di questo stato degenerato della coscienza umana sono i più alti responsabili; e che tale elevazione avvenga appunto sul modello della Chiesa. 

Né avremmo saputo pensare ieri cosa sarebbe sopravvissuto ancora di noi, se non ci fosse rimasta questa Chiesa ad accoglierci nel cielo della sua fede e della sua speranza, a rianimarci col suo fervore mai spento, a illuminare con le sue verità (anzi, coi suoi dogmi, costellazioni pendenti su questa notte mondana) la nostra disperazione. La sola, essa, che era in alto, al dissopra di tutte queste vendette, che si dicevano rivendicazioni doverose, al dissopra di tutti questi egoismi che eran detti diritti di superiore umanità; la sola, essa, che ci attese al di là delle frontiere; che tentò di riappacificarci come nessuno fece; che ambì di ricondurci in patria, lei che è senza patria. Non sapremmo cosa sarebbe successo di noi senza l’influenza dei suoi principî che sono ancora i semi fecondatori anche dei sistemi che le sono persino ostili, appunto perché penetrati ormai nel sangue di questi organismi umani, per cui specialmente questa Europa, malgrado tutto e quasi a sua disdetta, non può essere che cristiana o non essere

Noi, perduti, saremmo rimasti soli col nostro orgoglio che ci ha spogliati; soli con questa colpa nella quale nasciamo e che è la sola spiegazione adeguata di questo connaturale disordine; colpa ontologica ormai, dalla quale solo la Chiesa col suo battesimo di spirito e di fuoco ci redime, battesimo che ci riporta d’un tratto su un piano superiore a questa condannata esistenza, a questa fratturata vita dell’uomo; battesimo che ci raccoglie per fonderci in un unico organismo più vitale e più armonico dello stesso nostro corpo, dal quale appunto ricadiamo, ritornando individui sperduti, ogniqualvolta ci riprenda quell’orgoglio nativo, che ci fa terribilmente tristi e incomunicabili; orgoglio che ci fa credere sufficienti a noi stessi mentre non lo siamo, e perciò sprezzanti degli altri, anzi, dell’Altro; che ci fa usare delle cose come se ci dovessero bastare, mentre esse infine non aumentano che la fame, che è unicamente fame di Dio. 

Né quindi avremmo potuto pensare cosa sarebbe successo dell’Europa, senza questo sedimento di realtà cristiane, che pure è stato sufficiente per sconvolgere tutti, per farci arrossire di vergogna quasi di farci pentiti d’essere europei (e italiani specialmente); sufficiente questo poco di cristianesimo per smascherare tutte le miserie di cui andavamo tronfi, che invece alla fine si sono rivelate come inautenticità, non valori, amori di distruzione e delirii; appunto umanità irredenta e banale, mondo senza battesimo, senza vita sacramentale; mondo perciò disumano. Perché noi sappiamo tutti che l’uomo è per essenza ordinato a una vita più alta, all’altra vita; sappiamo che ha una struttura unica, eterna, e che Dio è il suo fine. Dovendo perciò raggiungere Dio nella sua pienezza, non lo può fare senza una Grazia, poiché egli è finito; non lo può senza educazione che è liberazione dalla schiavitù verso se stesso e le cose, superamento del suo limite; non lo può senza questa elevazione divina che lo spinga a una raffinatura gentile delle sue passioni. E come l’uomo singolo così la società; e come la società così come i continenti. 

È così, è stato proprio il cristianesimo (anzi, diciamo il cattolicesimo, poiché tutte le altre religioni non cattoliche, sono tutte più o meno religioni di stato, più o meno asservite a degli interessi che non sono autenticamente cristiani) a dichiarare la guerra all’uomo, a sconvolgere le idee, a denunciarci. È stato l’uomo messo violentemente di fronte a Cristo, dinnanzi a cui si è rivelato un sottouomo, una fiera selvaggia. E la sua politica era una politica di rapaci (che propriamente non è mutata ancora: nulla è sostanzialmente mutato, se si esclude qualcosa di esteriore, di formale; e non è vero che sono subentrate altre ideologie, chè non si sa se abbia vinto il nazismo o no, chè gli indirizzi, in fondo, sono ancora gli stessi; identici infatti erano i delitti da una parte all’altra, come identiche sono ora le responsabilità. E ieri era Danzica, come un pretesto qualsiasi e domani potrà essere Trieste; oggi sono i Dardanelli, come ieri era Gibilterra e Tangeri; oggi sono i bagliori di fuochi, di cupidigie orientali, come non eran ieri; e c’è la prepotenza e l’insulto come ieri, anche se più mascherato e gentile; anzi ci sono le prospettive che ieri non c’erano, poiché forse quell’arma ci libererà dalla noia di pensare a dei campi di prigionia, poiché basterà una bomba – che pure è stata usata! – per distruggere tutto. E, del resto, non sapevamo tutto questo? Lo sapevamo; e perciò lo diciamo anche ai neofascisti, senza lasciarcelo dire, che lo sapevamo; che non aspettavamo nessuna soluzione miracolistica, che quindi tutti i loro motivi demagogici sono falsi, e loro sanno che sono falsi, e perciò non continuino su questo gioco volgare come hanno fatto per vent’anni. E con ciò intendiamo appunto denunciare “qualunquismo” ed affini, tutti questi scontenti disfattisti, anzi arrivisti. Noi solo c’illudevamo di quell’appello al cristianesimo che in fondo era risuonato come un coro, un disarmonico coro fra il cozzo delle armi e la tristissima visione dei campi di morte; ci eravamo illusi perché appunto nel cristianesimo vedevamo l’unica possibilità d’incontro di tutte queste tendenze impazzite, mutatesi in odii mortali; vedevamo nel cristianesimo l’unica forza capace di smontare queste macchine di morte, di spegnere questi egoismi e di rifare civile l’uomo; c’illudevamo che l’uomo avesse più intelligenza e meno prevenzioni e cioè fosse superiore e più disinteressato). Comunque, anche questo si muta in apologia, di cui del resto non sentivamo il bisogno, nell’apologia che tutto è un’accusa alla nostra mancata attuazione cristiana.  

Che la Chiesa dunque sia il più abile organismo politico, nessun dubbio, quando specialmente per politica si intende (come si deve intendere) la salvezza dell’uomo nella folla, la sua difesa e il suo diritto che è insopprimibile; quando per politica s’intende l’attività dello spirito umano che ha per fine la felicità comune, il bene di tutti come bene dei singoli, la creazione di una civitas veramente pacifica e prosperosa, in cui si goda come di una musica, la bellezza di vivere insieme; di una civitas che sia immagine della città eterna; formazione quaggiù di una società che sia premessa al «corpus misticum» di Cristo, al quale siamo destinati. Riguadagnare questi regni di satana, senza adorare satana; redimere il potere e gli ordinamenti che una volta, come del resto anche ora, avevano e hanno una derivazione divina; rappacificare Cesare con Dio, perché Cesare si faccia più umano e l’uomo più divino. 

Questa la politica essenziale della Chiesa, che essa attua senza fretta, senza improvvisazione, perché lei ha i secoli che la servono; politica che prima di tutti ha attuato nel suo seno l’armonia delle classi senza violare la personalità dei singoli, senza violentarne la libertà; che ha formato la prima comunità di uomini senza distinzione di razze, di censi e di beni, poiché la Chiesa sa che presso Dio non c’è «accezione di persona», e che i valori di questa vita non sono fine a se stessi; né, anche se lo fossero, sarebbero sufficienti. Politica liberata finalmente da tutte le armi e quindi da tutte le violenze (del resto anche nel Medioevo, non era la Chiesa che aveva bisogno di Carlo Magno, ma Carlo Magno che aveva bisogno della Chiesa. Di fatto la Chiesa non ha saputo che farsene né di Enrico VIII né di Napoleone; mentre adesso la propaganda vorrebbe darci da bere che ora avevamo bisogno di Mussolini o di Roosevelt, che, almeno il primo, non era nulla da più di un satiro buffone, e l’altro non valeva certo l’ultimo dei poveri della Chiesa di Dio. Anzi, dirò che la Chiesa non ha neppure bisogno dei Gesuiti o dei Serviti o della A.C. poiché tutti, pur assorbiti nel suo intensissimo ritmo interiore, siamo alla fine dei «servi inutili»). 

È che la Chiesa, oltre che il suo segreto divino, il suo «Agnus Dei» che sta al centro del suo rito e pare un’inezia, un gioco (Uno che sempre tace) ha un’antropologia diversa da tutte le altre, un’antropologia veramente universale secondo cui l’uomo è scoperto in tutta la sua essenza, in tutta la sua struttura temporale ed eterna. Essa ha cura dell’uomo, non lo disperde; essa lo eleva, non lo opprime; lo ama, lo stima e non l’odia, non lo disprezza. La Chiesa non disprezza nessuno; non rinuncia a nulla e specialmente non vuole che l’uomo rinunci a se stesso, che abdichi alla sua definizione di creatura di Dio. E la sua filosofia è, sì, forse la più ingenua, ma è anche la più concreta: essa ci mette in comunicazione con l’essere, ci dice che l’essere non solo è conoscibile, ma che è anche raggiungibile, godibile. È l’Essere che non le manca, dal quale non si distacca e che perciò non muore. È anche questa sua metafisica che la rende dunque eterna, benchè non sia per essa che la Chiesa vive, ma della quale unicamente si serve per discernere nel regno delle forme, nel mondo del divenire, nella storia. 

Questa la politica della Chiesa, che non è confondibile neppure con la politica di un Papa e di un altro, di un Gregorio Magno o di un Giulio II e tanto meno di un Cesare Borgia. Politica che è ben distinta dalla diplomazia la quale alle volte può essere anche subdola e falsa; come di fatto c’è tutta una diplomazia che è dannosa alla stessa Chiesa, e che sono quelle manovre di corridoio, e che è quella polvere del secolo che si adagia sulle porpore e sugli ermellini; che è, alle volte, quell’astuzia, non certo amabile, non santa, di cui purtroppo è stata inventata una casistica intricata e capziosa, in virtù della quale essi difficilmente si sentiranno colpevoli, mentre avranno sempre un modo per colpire. Ma questa non è Chiesa e tanto meno la Chiesa. 

Ora, invece, trascurare quella superiore politica, pretendere di stipulare accordi di pace senza attingere a quella sua parola che è la parola di Lui, aspirare a una federazione di popoli in cui nulla è in comune all’infuori di questa destinazione divina, o addirittura muoversi contro di essa, è semplicemente un perdere tempo quando non è pazzia; è un lasciare le cose come sono se non peggiorarle; come del resto è stato confessato da molti, anzi scontato. Così agli uomini è tolto quel «vinculum» interiore, quel sigillo per una durata di qualsiasi contratto sociale e politico; mancherà soprattutto l’anima a questa Europa che non può essere ormai che cattolica.  

E neppure noi ci meravigliamo di quanto ha detto Proudhon «che al fondo di qualsiasi discussione politica, si trova sempre la teologia». È, anzi, quello che vogliamo: non una teologia qualsiasi, ma la sola trascendente che finalmente sia capace di farci liberi da questi immanentismi; teologia che è appunto l’anima di questa politica immortale. Solo invece ci meravigliamo che un laicismo ancora sussista, pur dopo tante smentite, per cui l’Europa la si vuole unita al di fuori e senza la Chiesa, senza questa presente cattolicità, un laicismo settario, che pur sa di essere falso.  

Eppure di là Qualcuno (L’uomo, 11 novembre 1945)  

Sento che mi trascino dietro 

la morte (il nulla!) 

Al tuo piede sanguinolento 

giace 

l’inutile vita, il nulla 

del dovere compiuto. 

Eppure 

di là di questa  

ringhiera di stanchezze 

Qualcuno chiama 

ancora. 

Fanciullezza (L’Uomo, 12 gennaio 1946)  

Come in uno specchio io vedo il tuo volto, 

Signore: hai vestito l’anima mia 

d’azzurro mistero. Ora 

io odo il mio inno, 

inno che è senza parole 

come i colloqui dei fiori e le stelle. 

Questo cuore ha sofferto la brina 

d’un gelido inverno. Ora 

bimbo che gesticola in cuna 

io sono. E il dolore 

ha cresciuto la mia impotenza. 

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