separateurCreated with Sketch.

La lettera segreta a “Don Falsario” per salvare alcuni ebrei di Roma

whatsappfacebooktwitter-xemailnative
Gelsomino Del Guercio - Aleteia - pubblicato il 09/11/16
whatsappfacebooktwitter-xemailnative

Il protagonista di questa storia è monsignor Pietro Barbieri, abile falsificatore di documenti, che strappò vite umane alla furia nazistaLo chiamavano “Don Falsario”: lavorava in Vaticano, indossava l’abito talare ma le sue contraffazioni di documenti, tra 1943 e 1944, hanno salvato la vita a decine di ebrei e antifascisti. Di monsignor Pietro Barbieri, morto nel 1963 a Roma e nato a Valle Lomellina, in provincia di Pavia, nel 1893, esiste una vastissima aneddotica (Vatican Insider, 5 novembre).

Racconti che lo trasformano in un personaggio da romanzo: fabbricatore di passaporti falsi, fondatore di ospedali e imprese, editore, cappellano di Montecitorio, commentatore del Vangelo radiofonico domenicale, consolatore di Sacco e Vanzetti prima dell’esecuzione. Eppure, nei due paesi lomellini in cui ha lasciato tracce importanti, la sua Valle e Pieve del Cairo, non ci sono così tanti documenti sul suo operato, specie negli anni della guerra.

Venerdì 11 novembre a Valle la biblioteca, l’amministrazione comunale e la parrocchia di San Michele Arcangelo rendono merito a questo eroe con un’iniziativa  dal titolo: “Mons. Pietro Barbieri. Un uomo, un sacerdote e la sua storia“. Un incontro in cui si spiegherà, in virtù della documentazione rinvenuta, le strategie di “Don falsario” per salvare vite umane in tempo di nazismo, mettendo a repentaglio la propria. Una di queste storie, poco nota, la racconta ad Aleteia il presidente della biblioteca comunale di Valle Lomellina Marco Feccia.

IL MATRIMONIO E LA LETTERA SEGRETA

E’ la storia di una corrispondenza segreta per tentare di salvare un gruppo di ebrei romani con l’aiuto di “Don Falsario”. E’ l’ 11 novembre 1940, a Valle Lomellina si celebra il matrimonio tra Nino Fossa e Lina Scagliotti. Al termine della cerimonia il parroco don Ambrogio Gronda gli consegna una lettera chiusa in una busta.

«Allora siamo d’accordo – dice il parroco a Nino – la lettera la consegni direttamente a Don Barbieri. Domani partirete per il viaggio di nozze a Roma e doman l’altro, alle tre del pomeriggio lo incontrerete dove vi è stato detto dal signor Francesco, lui sarà già là ad aspettarvi e vestirà abiti borghesi. Salutatelo da parte mia».

LA RICHIESTA DEL VESCOVO

Il signor Francesco è il fratello del vescovo missionario in Cina, Antonio Capettini, originario di Valle Lomellina. E la lettera è stata scritta proprio dal vescovo.

Capettini aveva chiesto a “Don Falsario” di “modificare” alcuni documenti che avrebbero assicurato ad alcuni ebrei di Roma di sfuggire alla deportazione nazista. E’ una corsa contro il tempo. Roma è blindata dai fascisti ma i neo sposi hanno capito che in ogni modo devono fare arrivare la lettera a Don Pietro.

L’appuntamento è sotto il porticato di una piazza lontana dalle mura Leonine. Lì c’è “Don falsario” , che aspetta, e per celia sbircia il giornale.

INCONTRO “TOP SECRET”

«La lettera – racconta Feccia – lontana da sguardi indiscreti, è presto nelle segrete tasche di “Don Falsario”. Pochi convenevoli, una benedizione impartita sotto traccia e il sacerdote s’incammina lungo il viale di ritorno, riparando sotto il largo ombrello nero la sua massiccia corporatura e la fluente chioma bianca esposta alle raffiche di vento. Procede lesto e guardingo, strizza gli occhi miopi a fessura dietro le spesse lenti e con lo sguardo cerca di scorgere eventuali figure sospette, ma la buona sorte lo accompagna fino a casa. E in direzione opposta si avviano gli sposi, finalmente in viaggio di nozze».

I DUBBI DELLA SEGRETARIA

Quando il prete torna a casa in Via Cernaia 14, «gremita di gente che lo aspetta», va nello studio, ricostruisce sempre il presidente della biblioteca di Valle Lomellina, «legge la lettera dell’amico vescovo alla fioca luce dell’unica lampadina. Poi, accende la sigaretta e di scatto si alza, chiama la fedele R. e le dice: “Leggi e provvedi, poi falla sparire. Al resto ci penso io”. Nella stanza scende il silenzio disturbato solo dal brusio del corridoio. Lo sguardo accigliato della segretaria scorre lento sulla minuta grafia del presule, ritorna più volte al capoverso precedente sul quale si sofferma per riflettere e comprendere meglio una richiesta così gravida di pericoli, mentre le labbra, con movimenti quasi impercettibili, vorrebbero proferire parola, ma tradiscono solo sbigottimento».

R. si toglie gli occhiali, porge lentamente il foglio al sacerdote e balbetta: “Ma … Don Pietro qui … è riportato …”. Con la talare sbottonata e il mozzicone impiastricciato nel posacenere, la guarda in volto, abbozza un velato sorriso e si congeda a modo suo: “Adesso devo andare di là, c’è l’avvocato A. che mi aspetta da chissà quanto tempo…”».

LE DUE LETTERE DI RINGRAZIAMENTO

25 aprile 1945, ha termine la guerra. A Roma, in via Cernaia al 14, una mattina d’estate di quell’anno, un messo della basilica di Santa Maria Maggiore recapita a Don Pietro una busta con sigillo episcopale. Dentro ci sono due lettere: una redatta dal vescovo missionario Antonio Capettini che fraternamente lo ringrazia, l’altra, con la stella di David, reca la scritta “Le dobbiamo la vita” e seguono le firme.