Vi sono espressioni anche più forti, con cui Luca ricorda le divisioni che si potevano verificare in una famiglia ebrea a causa della conversione di qualche membro alla fede cristiana: «D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera» (Lc 12,52-53). Forse proprio in questo contesto particolare maturano i detti di Gesù sulla sequela, che gli evangelisti formulano in modo iperbolico: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26).
Il linguaggio è assoluto, ma certamente Gesù non può aver invitato nessuno all’odio. Con questo modo di dire si vuol affermare l’esigenza radicale del vangelo: Gesù, la fede in lui, non può essere una realtà tra le altre; amarlo di più, persino più della propria vita, vuol dire amare tutto in lui. Di questo atteggiamento diviene espressione, nella tradizione cristiana, il celibato per il Regno dei cieli, ( Mt19,12;1Cor 7) un dono e un segno per tutti, ma non l’unica condizione di vita per seguire il Signore che volle avviare il proprio ministero terreno con dodici uomini, quasi sicuramente, tutti sposati. La condizione migliore di sequela, poi, i Vangeli e gli Atti degli apostoli, dicono sia quella del «martire», del testimone disposto a dare la vita per i fratelli, in forza dell’amore del Signore. Né l’esser sposato impedisce la sequela, né l’essere celibe la garantisce, solo l’essere «martire», cruento o incruento, testimone del vangelo con tutta la vita la rende autenticamente possibile.
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