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Papa Francesco“Non è umano chiudere le porte ai rifugiati, ma serve prudenza per integrare bene”

Pope Francis during the press conference on the papal flight – CPP

© ServizioFotograficoOR/CPP

January 15, 2015: Pope Francis gestures as he answers questions from a journalist during the flight from Colombo, Sri Lanka, to Manila in the Philippines.<br /> EDITORIAL USE ONLY. NOT FOR SALE FOR MARKETING OR ADVERTISING

Andrea Tornielli - Vatican Insider - pubblicato il 01/11/16

La conferenza stampa del Pontefice sul volo Malmö-Roma

«Non è umano chiudere le porte e il cuore ai rifugiati», ma serve anche prudenza per poter accogliere quanti possono essere davvero integrati potendo offrire loro casa, scuola e lavoro. Lo ha detto Papa Francesco dialogando con i giornalisti sul volo da Malmö a Roma. «Vorrei salutarvi e ringraziare per il lavoro che avete fatto – ha detto all’inizio Francesco – per il freddo che avete preso. Ma siamo usciti in tempo, dicono che questa sera scende cinque gradi di più».

Sempre più persone cercano rifugio nei Paesi europei ma ci sono reazioni di paura. C’è chi dice che i rifugiati possano minacciare l’identità e il cristianesimo in Europa. Anche la Svezia comincia a chiudere frontiere…

«Come argentino e sudamericano ringrazio tanto la Svezia per questa accoglienza, perché tanti argentini, cileni, uruguayani, nel tempo delle dittature militari sono stati accolti qui. Ha una lunga tradizione di accoglienza e non soltanto nel ricevere ma anche nell’integrare, nel cercare subito casa, scuola, lavoro. Integrare in un popolo. Forse sbaglio, non sono sicuro, ma la Svezia ha 9 milioni di abitanti e 850mila sarebbero “nuovi svedesi”, cioè migranti o rifugiati. O i loro figli. Si deve distinguere tra migrante e rifugiato. Il migrante deve essere trattato con certe regole, perché migrare è un diritto ma è molto regolato. Invece il rifugiato viene da situazioni di angoscia, fame, guerra terribile e il suo status ha bisogno di più cura e di più lavoro. Anche in questo la Svezia sempre ha dato un esempio nel sistemare, nel fare imparare la lingua, e anche nell’integrare nella cultura. Sull’integrazione delle culture: non dobbiamo spaventarci: l’Europa è stata fatta con una continua integrazione di culture. Cosa penso dei paesi che chiudono le frontiere? Credo che in teoria non si possa chiudere il cuore a un rifugiato. C’è anche la prudenza dei governanti, che devono essere molto aperti a riceverli ma anche a fare il calcolo di come poterli sistemare, perché non solo un rifugiato lo si deve ricevere, ma lo si deve integrare. Se un paese ha una capacità di integrazione, faccia quanto può. Se un altro ne ha di più, faccia di più, sempre con il cuore aperto. Non è umano chiudere le porte, non è umano chiudere il cuore e alla lunga questo si paga, si paga politicamente, come anche si paga politicamente una imprudenza nei calcoli e ricevere più di quelli che si possono integrare. Qual è il rischio se un migrante o un rifugiato non viene integrato? Si ghettizza! Entra in un ghetto, e una cultura che non si sviluppa in un rapporto con un’altra cultura entra in conflitto, e questo è pericoloso. Credo che il più cattivo consigliere per i paesi che tendono a chiudere le frontiere sia la paura. E il più buon consigliere sia la prudenza. Ho parlato con un funzionario del governo svedese e mi diceva di qualche difficoltà perché vengono in tanti e non si fa a tempo a sistemarli e a trovare scuola, casa, lavoro. La prudenza deve fare questo calcolo. Io credo che la Svezia se diminuisce la sua capacità di accoglienza non lo faccia per egoismo, se c’è qualcosa del genere è per ciò che ho detto… guardano alla Svezia ma non c’è il tempo per sistemare tutti».

La Svezia ha una donna a capo della sua Chiesa. È realistico pensare anche a donne prete nella Chiesa cattolica?

«Leggendo un po’ la storia di questa zona, dove siamo stati, ho visto che c’è stata una regina che è rimasta vedova tre volte e ho detto: questa donna è forte. Mi hanno detto: le donne svedesi sono molto forti e molto brave… Sulle donne ordinate: l’ultima parola è chiara ed è stata quella data da Giovanni Paolo II. E questa rimane. Ma le donne possono fare tante cose meglio degli uomini. L’ecclesiologia cattolica ha due dimensioni. La dimensione petrina, quella degli apostoli, Pietro e il collegio, i vescovi; e la dimensione mariana, che è quella femminile della Chiesa. Chi è più importante nella teologia e nella mistica della Chiesa? Gli apostoli o Maria? È Maria, la Chiesa è donna. La Chiesa sposa Gesù Cristo. È un mistero sponsale e alla luce di questo mistero si capisce il perché di queste due dimensioni. Non esiste la Chiesa senza questa dimensione femminile».

Per sempre mai donne prete?

«Se rilegge bene la dichiarazione di san Giovanni Paolo II va in questa linea».

Alla vigilia di Pentecoste del 2017 ci sarà un incontro al Circo Massimo per l’anniversario del rinnovamento carismatico. Che cosa spera?

«Sono stato dagli evangelici a Caserta, e poi in Torino dai valdesi: queste sono iniziative di riparazione, perdono, perché i cattolici, parte della Chiesa cattolica, non si è comportata cristianamente con loro. C’era da chiedere perdono e sanare ferite. L’altra iniziativa è quella del dialogo. A Buenos Aires abbiamo avuto tre incontri allo stadio con fedeli evangelici e cattolici, nella linea del rinnovamento carismatico, ma aperta. Incontri di tutto il giorno, durante i quali predicava un vescovo evangelico e un vescovo cattolico. In due di questi incontri ha predicato padre Cantalamessa. Abbiamo anche avuto due ritiri spirituali di tre giorni, con pastori e sacerdoti cattolici insieme. Questo ha aiutato molto il dialogo, la comprensione, l’avvicinamento, il lavoro per chi ha più bisogno. A Roma ho già avuto riunioni con alcuni pastori. Si organizza una celebrazione per i 50 anni del rinnovamento carismatico, che è nato ecumenico. Se Dio mi dà vita andrò a parlare lì, al Circo Massimo. Quando il rinnovamento carismatico è nato, uno degli oppositori più forti è chi vi sta parlando, che era provinciale dei gesuiti: proibii ai gesuiti di mettersi in questo e dissi che quando c’era una celebrazione liturgica doveva essere una celebrazione e non una scuola di samba. Ora penso l’opposto e ogni anno in Buenos Aires tenevo una messa per i carismatici. C’è stato un processo di riconoscimento del bene che ha fatto questo rinnovamento, con la figura del cardinale Suenens…».

Da poco tempo ha ricevuto il presidente del Venezuela Nicolas Maduro. Che sensazione le ha dato questo incontro e che cosa pensa dell’inizio del dialogo?

«Il presidente del Venezuela ha chiesto un appuntamento perché arrivava dal Medio Oriente e faceva uno scalo tecnico a Roma. Quando un presidente chiede, lo si riceve. L’ho ascoltato mezz’ora, gli ho fatto qualche domanda e ho sentito il suo parere. È sempre bene sentire il parere di tutti. Sul dialogo: è l’unica strada per tutti i conflitti, si dialoga o si grida. Non c’è altra strada. Col cuore ce la metto tutta nel dialogo, credo che bisogna andare su quella strada, non so come finirà… è complesso, ma la gente che è nel dialogo è gente di caratura politica importante… C’è Zapatero che è stato capo del governo spagnolo. Ambedue le parti hanno chiesto alla Santa Sede di essere presente. La Santa Sede ha designato il nunzio in Argentina, monsignor Tscherrig. Il dialogo che favorisce il negoziato è l’unica strada per uscire dai conflitti. Se questo si fosse fatto in Medio Oriente, quante vite sarebbero state risparmiate».

In Svezia la secolarizzazione è molto forte. È un fenomeno che tocca l’Europa, si stima che in Francia la maggioranza dei cittadini saranno senza religione. La secolarizzazione è una fatalità? Di chi è la responsabilità, dei governi laici o della Chiesa che è timida?

«Fatalità no, io non credo nelle fatalità. Chi sono i responsabili? Non saprei dire, è un processo. Benedetto XVI ha parlato tanto e chiaramente di questo. Quando la fede diventa tiepida è perché si indebolisce la Chiesa. I tempi più secolarizzati – pensiamo alla Francia per esempio – sono quelli della mondanizzazione, quando i preti erano lacché della corte, c’era un funzionalismo clericale, mancava la forza del Vangelo. In tempi di secolarizzazione possiamo dire che c’è qualche debolezza nell’evangelizzazione. Ma anche c’è un altro processo, quando l’uomo riceve il mondo da Dio per farlo cultura, per farlo crescere. Ma a un certo punto l’uomo si sente tanto padrone di quella cultura che comincia a fare lui il creatore di un’altra cultura, ma propria, e occupa il posto di Dio creatore. Nella secolarizzazione io credo che prima o poi si arriva al peccato contro Dio creatore, l’uomo autosufficiente. Non è un problema di laicità: ci vuole una sana laicità, la sana autonomia delle scienze, del pensiero, della politica. Altra cosa è un laicismo come quello che ci ha lasciato in eredità l’Illuminismo… Se si va oltre i limiti e ci si sente Dio, significa che c’è una debolezza nell’evangelizzazione, i cristiani diventano tiepidi. É necessario riprendere una sana autonomia nello sviluppo di cultura e scienza, ma con la consapevolezza di essere creature, non sentendosi Dio. Il cardinale De Lubac disse che quando nella Chiesa entra questa mondanità è peggio ancora di quello che è accaduto nell’epoca dei Papi corrotti. Gesù quando prega per tutti noi nell’Ultima Cena chiede una cosa al Padre: non di toglierci dal mondo, ma di difenderci dal mondo, dalla mondanità, che è pericolosissima: una secolarizzazione un po’ truccata o travestita, un po’ pret-a-porter».

Qualche giorno fa ha incontrato il Santa Marta Group che si occupa di schiavitù e tratta di essere umani. Perché? Ha fatto esperienze in Argentina?

«Da prete, sempre ho avuto questa inquietudine della carne di Cristo, il fatto che Cristo continua a soffrire, che Cristo viene crocifisso continuamente nei suoi fratelli più deboli. Mi ha sempre commosso. Ho lavorato da prete in piccole cose, con i poveri, ma non esclusivamente, lavoravo anche con universitari. Poi da vescovo di Buenos Aires abbiamo fatto iniziative contro la schiavitù nel lavoro anche con gruppi di non cattolici e non credenti. Arrivano migranti e gli prendono il passaporto e fanno fare loro lavoro schiavo. Ho lavorato con due congregazioni di suore che si occupano di prostitute, donne schiave della prostituzione (non mi piace dire prostitute, schiave della prostituzione). Una volta l’anno facevamo una messa per queste donne…. Lavoravamo insieme e qui in Italia ci sono tanti gruppi di volontariato che lavorano contro ogni forma di schiavitù. Alcuni mesi fa ho visitato una di queste organizzazioni. Si lavora bene, non pensavo succedesse. È una cosa bella che ha l’Italia, il volontariato e questo è dovuto ai parroci: l’oratorio e il volontariato sono nati dallo zelo apostolico dei parroci».

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