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No, condividere bufale non è affatto un’azione innocua

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Valerio Evangelista - Aleteia - pubblicato il 31/10/16
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Diffondere con superficialità delle notizie non verificate può avere conseguenze devastantiDomenica scorsa l’Italia è stata colpita da un nuovo, tremendo, evento sismico, considerato il più forte dal 1980. Il terremoto, di magnitudo 6.5 con epicentro tra Norcia e Preci, ha raso al suolo il borgo di Arquata del Tronto e distrutto moltissimi edifici (tra cui la cattedrale di Norcia). Attualmente si contano decine di migliaia di sfollati, è un vero miracolo che non ci siano state vittime.

Non si è dovuto attendere neanche un’ora dalla terribile scossa che qualcuna ne ha approfittato per portare avanti la propria agenda politica. Non nel migliore dei modi, aggiungerei. Questa qualcuna a cui mi riferisco è la senatrice Enza Blundo, che su Facebook ha accusato l’INGV di abbassare la magnitudo per non risarcire i cittadini.

La politica del Movimento 5 Stelle ha modificato più volte il post, rendendosi conto del polverone che aveva causato, per poi pubblicare un ulteriore status in cui chiede scusa “per le dichiarazioni scritte questa mattina. Sono state parole dettate dall’emotività che può coglierci in alcuni momenti di particolare tensione e sconforto in relazione, tra l’altro, ad esperienze vissute”.

La senatrice abruzzese si riferisce ovviamente alla tragedia che ha colpito l’Aquila nell’aprile 2009. Umanamente comprendo la sua emotività e non soltanto perché sono abruzzese anche io (benché la perdita di una casa e la morte dei miei vicini abbiano lasciato un segno indelebile). Tutta l’Italia ha vissuto con sgomento quelle 3:32 di sette anni fa. Comprendo la sua agitazione.

Ma il problema non è dire un’assurdità e poi chiedere scusa. Il problema è fare tutto ciò pubblicamente, alimentando un vortice di discussioni basate sul nulla. Il problema è spacciare un’ipotesi senza alcun fondamento come verità, perché innesca un circolo vizioso in cui le scuse successive hanno un potere pari a zero. Un lusso che nessuno, tantomeno una figura pubblica di tale autorevolezza istituzionale, può concedersi.

Non mi dilungherò sui dettagli tecnici di tale affermazione, riciclata periodicamente in seguito a catastrofi naturali e già ampiamente smontata da varie fonti.

Ciò che mi preme sottolineare è che tutti – che si tratti di personaggi più o meno pubblici oppure di chi usa Facebook per fare gli auguri di Natale agli amici del liceo – hanno nelle proprie mani un’arma potentissima: il tasto ‘condividi’. Farne un uso improprio (cioè senza aver approfondito la questione, né essersi assicurati della attendibilità delle fonti) può avere conseguenze disastrose.


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Probabilmente tra un paio di anni (quasi) nessuno si ricorderà della brutta figura della Blundo. Probabilmente scorderemo persino il suo nome. Ma la bufala che lei ha contribuito ad alimentare continuerà a diffondersi di bacheca in bacheca, di meme in meme, di sito in sito. Poco importa che non abbia alcuna base logica, scientifica o statistica; poco importa che i link in questione facciano riferimento a improbabili blog che trattano qualsiasi argomento (dai misteri dell’antichità fino agli alieni che vivono tra noi camuffandosi da umani) secondo un personale e discutibile punto di vista.

CAUSE E CONSEGUENZE DELLA DISINFORMAZIONE

Chi si inventa ‘notizie’ fasulle (sfruttando la superficialità di chi pensa che la verifica delle fonti sia roba d’altri tempi) può avere varie motivazioni per agire in questo modo. Gli obiettivi su cui voglio concentrarmi sono principalmente tre: creare un’atmosfera di generale non responsabilità (“se sono gli alieni rettiliani a comandare ogni cosa, perché dovrei preoccuparmi di avere una coscienza civica? Tanto decidono tutto loro”), portare avanti in modo disonesto le proprie battaglie (spesso generando odio verso una precisa categoria di persone) oppure monetizzare.

Non dovremmo neanche discutere dell’immoralità di chi crea tali pseudo-notizie. Ma il problema non è “soltanto” di tipo etico. Questo tipo di comportamento ha diverse conseguenze (delle quali è responsabile non soltanto chi crea disinformazione, ma anche e soprattutto chi la diffonde). Tra le altre, mi limito a citare: odio e disprezzo nei confronti di una categoria di persone, che diventano il nemico comune da combattere, e conseguente allarmismo; patologie fisiche (nel caso di bufale sul rapporto tra vaccini ed epilessia, ad esempio) o mentali (a causa della paranoia e della negatività indotte da queste verità alternative); spreco di soldi (per chi, sprovveduto, effettua investimenti o donazioni sulla base di emotività naïf).

La Germania offre uno spunto di riflessione interessante. La polizia di Monaco di Baviera ha infatti deciso di diffondere un “avviso ai naviganti” avvertendo che “chiunque diffonda consapevolmente false notizie su attentati, allarmi e rischi per la sicurezza, facendo scattare un’operazione di polizia, ne pagherà i costi. I procurati allarmi saranno puniti severamente e senza tetti di spesa”. “Ci sono persone”, spiega la polizia tedesca sui suoi profili social “che ritengono sia divertente giocare con la paura dei propri simili”.

SERVE AFFRONTARE I “BUFALARI”?

La Treccani definisce bufala come “affermazione falsa e inverosimile, panzana”. Chi smonta tali panzane fa un’utilissima operazione di demistificazione, chiamata debunking. Vi è mai capitato di vedere su Facebook un link ad una notizia palesemente falsa e infondata, insomma ad una ciarlatanata? Avete mai provato a controbattere, citando dati concreti e fonti autorevoli? Chi l’ha fatto probabilmente (anzi, molto probabilmente) avrà ingaggiato una battaglia a colpi di commenti e citazioni più o meno affidabili, per poi rendersi conto di aver soltanto perso tempo. Ognuno è rimasto della propria convinzione, e chi ha abboccato alla bufala è rimasto ancora più affascinato dal potere “pseudo-rivoluzionario” di tale ipotesi.

A tal proposito scrive Andrea Danielli su chefuturo!:

Il dialogo con chi è caduto nella trappola diventa molto difficile: non sa valutare se le spiegazioni reggano o meno. Non che sia un’attività agevole: servono logica e dimestichezza con la chimica, la fisica, la meteorologia. Ma, sopra ogni altra cosa, occorre un po’ di epistemologia, quell’area della filosofia che si occupa di discutere e problematizzare il modo in cui acquisiamo conoscenza della realtà”.

In parole povere, tentare di smontare una bufala spesso è un’impresa titanica che rischia di essere pressoché inutile. Anche uno studio dell’IMT di Lucca ha recentemente portato avanti questa idea. Riporta ilpost.it:

Walter Quattrociocchi – capo del CSSLab dell’IMT di Lucca, che si occupa di scienze sociali computazionali – ha raggiunto questa conclusione dopo che insieme a un team di altri sette ricercatori ha studiato come due gruppi di utenti statunitensi di Facebook hanno interagito con le notizie che gli comparivano davanti. Nel primo gruppo c’erano persone abituate a leggere su Facebook notizie che arrivano da rispettabili riviste scientifiche. Nel secondo gruppo c’erano persone che preferiscono invece pagine di altro tipo: quelle contro i vaccini, quelle che vedono complotti un po’ ovunque, quelle che parlano degli “Illuminati”, una società segretissima e molto elitaria che, pare, deciderebbe le sorti del mondo.

Lo studio di Quattrociocchi è arrivato a due importanti conclusioni. Primo: i due gruppi non si sovrapponevano per niente: i “disinformati” – per chiamarli con un termine elegante – non vedevano mai su Facebook le notizie vere. Secondo: quando i “disinformati” incontravano notizie che smontavano e spiegavano le bugie che avevano letto, non cambiavano comunque la loro opinione. Dopo aver incontrato un post che provava a smentire una qualche teoria del complotto, quelli che credevano in quella teoria erano anzi ancora più propensi a commentare e fare “mi piace” a notizie a favore di quella teoria.

Sono davvero tante le leggende metropolitane diventate oltremodo virali, facendo mordere le mani a chi ha fatto del fact checking uno stile di vita. Ce n’è una particolarmente odiosa, anticristiana e sgradevole: “Gli stranieri sono … … …, non come noi nativi”. Riempite i puntini con un insulto a scelta (tra “delinquenti”, “sfaticati”, “pericolosi” e molti altri) e poi leggete questo speciale di Medici Senza Frontiere che smonta una ad una le principali bufale anti-migranti. Sì, mi rendo conto che MSF potrebbe non essere attendibile quanto siti come “tuttiacasa.uhm” o “noalcomplotto.argh” (no, non esistono questi siti, inutile che li cerchiate; ma ne esistono di simili – a cui non voglio fare assolutamente pubblicità – che guadagnano fiumi di soldi grazie alla faciloneria degli utenti).


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Un problema che ha trovato nella potenziale viralità dei post su Facebook le condizioni perfette per annidarsi, crescere e proliferare. Soprattutto nella sezione che raccoglie le notizie più discusse (inesistente nella versione italiana del famoso social network), le Trending Topics, “proliferano falsità e teorie del complotto”, per citare delle parole usate dal Washington Post. Il team di Zuckerberg ha modificato gli algoritmi, che però sembrerebbero non riuscire ancora ad ignorare del tutto le viralissime notizie costruite a tavolino e basate sul nulla.

COME COMPORTARSI?

Ma come difendersi da questa malattia virtuale? Nello stesso articolo citato prima, Danielli propone un provocatorio vademecum per “fare un cocktail di epistemologia e pratica dei social network”:

1) prima di appassionarvi di un campo a voi ignoto, cercate degli esperti che vi possano dare una mano nel formarvi, senza prendere cantonate su Google; chiedete innanzitutto ad amici e conoscenti che hanno studiato la materia;

2) evitate di rilanciare affermazioni di cui non sapete verificare la validità: altrimenti alimentate la fuffa, e contribuite a rendere peggiore l’opinione pubblica, a far perdere tempo ai vostri amici, ad aumentare la conflittualità sociale su basi errate; non sono cose da poco, chi legge i vostri link lo fa perché si fida di voi;

3) prendetevi almeno 2 anni prima di esprimervi su una nuova materia – e il tempo di studiarla, se davvero vi interessa;

4) non utilizzate i dati per concludere le vostre discussioni senza averli contestualizzati, e inquadrati; cominciate a ragionare sui principi teorici fondamentali (ergo tornate al punto 3). Per la maggior parte dei dibattiti è possibile infatti reperire dati pro o contro. La strada giusta è fatta da una struttura che chiarisce in primo luogo la cornice teorica, poi propone dei dati collegati agli esperimenti/statistiche utilizzati per produrli, poi compara grandezze tra loro omogenee;

5) non pontificate su tutto, se non volete essere insultati per buona parte del vostro tempo. Utilizzate espressioni come: “a mio avviso”, “IMHO”, “sottopongo dati interessanti che non so come interpretare”, “attendo commenti da parte di esperti”.