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Nella Siria dove, oltre alle bombe e a missili, piovono miracoli

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Marinella Bandini - Aleteia - pubblicato il 28/10/16
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Un proverbio arabo dice: “Quanto più un tappeto riceve colpi, tanto più si pulisce e risplende”. Così “sotto i colpi della guerra in Siria, la comunità cristiana si è purificata”. Usa queste parole padre Ibrahim Alsabagh, frate francescano, parroco della chiesa di San Francesco ad Aleppo e vicario del vescovo. Padre Ibrahim è in Italia per presentare il suo libro “Un istante prima dell’alba”, raccolta di sue lettere, articoli e conferenze sulla situazione in Siria. Una sorta di diario (da gennaio 2015 a giugno 2016): duecento pagine di episodi, domande – quelle dell’uomo e quelle del sacerdote -, testimonianze, riflessioni e soprattutto di speranza, di quel chiarore che, anche tra le nubi, annuncia l’alba di un giorno nuovo. “È questa la logica della fede: siamo perfettamente consapevoli di ciò che accade intorno a noi, ma nel nostro cuore regna la sicurezza che la fede ci dà la forza di resistere sognando un mondo più bello e, soprattutto, creandolo fin d’ora con le nostre mani”.

La chiesa di San Francesco si trova a 60 metri dalle postazioni dei miliziani. Non più di una settimana fa un missile di tre metri è caduto su un terreno della parrocchia. La situazione può esplodere da un momento all’altro. In città manca tutto: acqua, cibo, elettricità, gasolio, lavoro. La situazione presente è confusa, il futuro è inimmaginabile. Ma è qui che dalla fede fioriscono la speranza e la carità. È qui che, oltre alle bombe e a missili, piovono miracoli. Il miracolo della vita. La possibilità di distribuire cibo a 600 famiglie ogni mese, di fornire acqua e medicine, di riparare le case perché un ingegnere bussa alla porta del convento, di pagare i mutui, di far studiare i ragazzi, di mettere in piedi l’oratorio estivo per oltre 200 bambini. Sono segni di speranza, anche se non risolutivi. Sono quella Chiesa che si fa “braccia, mani, piedi, mente e cuore”. Ma “il vero miracolo è la conversione dei cuori, e ciò che opera il Signore nei cuori, qui, è più che un miracolo”.

“È il Signore che fa la storia” dice padre Ibrahim. Lui alcune cose non le avrebbe neanche cominciate, o ne avrebbe fatte altre. Invece è bastato dire sì a ciò che arrivava. Tutta la giornata, dalle 7.30 alle 23, è spesa per servire gli altri, chiunque siano. “Non è mia la forza di questa carità: se non attingessi alla forza di Dio, non potrei fare nulla. Per me è essenziale la preghiera” racconta. Cosa vuol dire seminare speranza quando muore un figlio o la casa viene distrutta? Quando i bambini perdono il sonno e sono esperti di missili invece che di giochi e cioccolatini? “Non siamo all’altezza della crisi umanitaria, ma ci chiniamo sulle piaghe dell’umanità, sull’uomo privato della dignità mille volte al giorno”. Una gratuità contagiosa: “Non vogliamo che la sofferenza diventi chiusura nell’egoismo. Deve purificarci, spingerci fuori da noi per arrivare all’altro che soffre, a pregare per gli altri, anche per chi lancia missili su di noi”. La carità – dice – “sarà sempre la prima e anche l’ultima parola su tutto”.

“Talvolta, pensando a me stesso, dentro di me rido perché, amante dei libri e di alti studi teologici, mi trovo ad Aleppo a fare il vigile del fuoco, l’infermiere, il badante e, da ultimo, il sacerdote”. Padre Ibrahim è arrivato due anni fa, dicendo sì a quello che ha percepito come un disegno di Dio sulla sua vita. Da allora sono nati oltre venti progetti umanitari, oltre al servizio pastorale: Messe, confessioni, visite nelle case, iniziative in parrocchia. Lo scorso anno, a fine ottobre, una bomba ha colpito la cupola della chiesa durante la messa serale, quella più affollata, al momento della comunione. Per miracolo non ci sono state vittime. Da allora le strutture parrocchiali sono state più volte colpite. Il 12 dicembre 2015 è stata aperta la Porta Santa: “Da quando sono arrivato – confida padre Ibrahim -, ho inteso il mio servizio come un servizio per aprire porte, anzi, aprire ‘la porta’, quella della misericordia di Dio, a tutti coloro che soffrono”. Dice: “Non mi interessa morire domani (…). Mi fa molta più paura l’idea di non essere disponibile a dare tutto quello che ho alle persone che bussano alle nostre porte”.

 

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