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Il grido disperato di Aleppo ovest

Vatican Insider - pubblicato il 20/10/16

«Nei media si parla quasi esclusivamente della drammatica situazione di Aleppo est, bombardata dalle truppe regolari di Assad e dai russi. Ma negli ultimi tempi anche nella zona occidentale di Aleppo si assiste a una vera e propria escalation di cui si ha ben poca coscienza». «I giornalisti di tutto il mondo, comprensibilmente, si concentrano sulla zona orientale della città, sono pochi quelli che chiedono o vengono da noi per capire. Ma da noi la situazione sta precipitando, e rischiamo l’oblio internazionale». È un allarme accorato quello che giunge dal cuore di Aleppo ovest. A inviarlo al mondo sono due sacerdoti, Firas Lutfi – francescano della Custodia di Terra Santa, superiore del convento di Er Ram, Aleppo – ed Elias Janji, un sacerdote armeno cattolico, vice parroco della cattedrale, ormai distrutta dalle bombe. A pochi giorni dall’ennesimo razzo scagliato dai ribelli contro la zona ovest della città, controllata dal governo siriano, che ha ucciso sul colpo due coppie di fratellini in procinto di entrare a scuola, i due prelati spiegano le difficoltà della vita quotidiana in un’area ormai in costante assedio, forniscono una analisi delle ragioni di un conflitto ormai fuori controllo ed esprimono lo sconfinato dolore per una Città, una nazione allo stremo. Senza cedere alla disperazione.

«Prima del 2011 – comincia fra Firas – ad Aleppo vivevano oltre 2 milioni di persone. Ora non arriviamo a 1,3 milioni. Stanno scappando tutti. Nella zona est, i servizi alla cittadinanza da parte del governo, da quando i ribelli e i jihadisti hanno preso il controllo, sono stati interrotti. Alla pena della guerra, quindi, si è aggiunta la mancanza quasi totale delle istituzioni. Il fatto è che ormai la situazione nella parte ovest sta gradualmente divenendo se non peggiore, molto simile a quella della zona est e temo che in breve tempo non ci sarà più un’area migliore di un’altra: sarà l’inferno ad Aleppo est, come a ovest, a sud o a nord. Le case, gli ospedali, le scuole, gli edifici demoliti ormai sono tanti, muore tanta gente, bambini. Il mio convento è stato centrato da un missile il 21 maggio scorso che ha ucciso una anziana nostra ospite, e negli ultimi mesi siamo stati talmente presi di mira dai ribelli che abbiamo deciso di non ricostruire più. I jihadisti accusano Assad ma sono loro a lanciare su Aleppo ovest. Purtroppo ogni volta che si parla di tregua, aumentano le bombe. De Mistura aveva chiesto ai jihadisti e ad Al Nusra di uscire dalla nostra zona sotto la promessa che Onu e Russia avrebbero garantito corridoi per i civili e per loro stessi. Il loro “no” è arrivato attraverso nuovi missili». 

«Ormai ogni giorno cadono bombe su Sulaymaniyah e in tutta questa zona della città – gli fa eco padre Elias – sembrano tutti impazziti. Da tempo, inoltre, si sono aggiunti nuovi, gravissimi problemi: l’acquedotto e le centrali elettriche sono controllati dai ribelli che chiudono o aprono a loro piacimento. Da ormai 15 giorni è stata interrotta l’erogazione dell’acqua mentre sono ormai 4 mesi che l’elettricità è scarsissima. Ognuno di noi esce di casa la mattina essendo ben cosciente che il suo rientro non è sicuro. Il numero dei miei amici, conoscenti, parenti scappati o morti è ormai altissimo.  

In Siria si sta ormai combattendo un guerra internazionale, quasi mondiale…

Fra Firas: «Nei primi mesi del 2011, sembrava che ci fosse una sorta di contagio delle “Primavere” e molti erano entusiasti. Dopo 5 anni e mezzo il pessimismo regna sovrano. La mia idea è che la primavera araba sia stata solo un cappello messo sopra un progetto internazionale molto più articolato. Qui si consuma la nuova guerra fredda e varie potenze si posizionano a seconda delle convenienze: ormai Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Iran, vari stati europei, ma anche microeserciti, cani sciolti di varie nazionalità, sono attori del conflitto a tutti gli effetti. E noi, che colpa ne abbiamo? Sono giganti, allora perché hanno scelto proprio la Siria per farsi la guerra? Io credo che l’innesco a questa situazione sia stato dato dall’invasione Usa in Iraq e che alla base ci sia lo sfruttamento delle risorse. Il Qatar voleva far passare il gasdotto per la Siria, la Turchia, fino all’Europa ma i russi erano contrari. E così, da paese ricco di cultura e materie prime, siamo finiti per essere terra di preda. Qui si gioca una partita fondamentale per l’umanità intera: o questo spaventoso intrigo internazionale si risolve definitivamente a partire dalla Siria o sarà il big bang mondiale. O ci salviamo insieme ora a cominciare da Aleppo o sarà guerra mondiale». 

In cosa è lecito sperare?

«La gente – a parlare è padre Elias – ha perso ogni speranza che la guerra finisca, ogni giorno la situazione peggiora. La povertà è ormai enorme e si fa fatica a consolare. Ma ci sono elementi che ci aiutano a non soccombere. Innanzitutto la fede in Dio, poi il sostegno che riceviamo da tanti amici nel mondo. Ci sono gli aiuti della Caritas, del Jesuit Refugee Service, ma anche di piccole organizzazioni come Aiulas (aiulas.org) con cui abbiamo già fatto vari microprogetti. Grazie a questa piccola associazione italiana siamo riusciti a fornire il gasolio per tutto l’anno scorso, abbiamo garantito l’erogazione di acqua e di recente abbiamo ricevuto fondi per assicurare card sanitarie a 125 persone che possono ricevere prestazioni gratuitamente. Resta anche molto positivo il dialogo, l’amicizia tra musulmani e cristiani. Nessuno tra i fedeli islamici crede in Daesh. Noi come preti assieme agli sheikh interveniamo spesso in tv e richiamiamo alla fratellanza, almeno tra noi popolazione civile. Tanta gente però ha perso cari e per un cuore ammalato di tristezza è difficile aprirsi al dialogo o alla consolazione. Ma piano piano sono certo che le cose cambieranno». 

«La speranza – riprende fra Firas – è l’unica cosa che ci sostiene, è una lotta interiore spirituale. Abbiamo tanta gente ormai affetta da depressione, ma noi non ci chiudiamo. Io mi auguro che il dialogo tra le forze in campo non cessi mai, bisogna evitare la logica del tutto o niente: scendere a patti e negoziare. E poi, basta col commercio delle armi, se si riducessero gli affari sulla guerra, il mondo, a partire da Aleppo, tornerebbe ad avere un po’ di speranza». 

In attesa che le potenze in campo, trovino vie nuove per mettere fine al conflitto, un segno di speranza arriva proprio da Aleppo ovest. A metà ottobre, ottocento bambini di fede cristiana e musulmana sono stati raccolti da fra Firas e i suoi confratelli, per pregare, ballare, giocare assieme per la pace. «Visto che noi adulti abbiamo fallito, ci siamo rivolti a loro per intenerire il cuore di Dio e schiudere quello indurito dei potenti».  

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