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Le forme sottili di manipolazione che possono portare all’abuso domestico

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Kivilcim Pinar | Getty Images

For Her - pubblicato il 19/10/16

“No, mi dicevo. Quello che stavo sperimentando non era un abuso, ed era completamente colpa mia”

L’ultima volta in cui ho visto il mio abusatore, il mio corpo si è preparato a un attacco.

Eravamo stati separati per tre mesi, ma è stato solo quella settimana che l’ho lasciato davvero. Mi sono rifiutata di cedere alle sue richieste e di assumermi la responsabilità delle sue minacce di suicidio e autolesionismo. Ero calma, razionale e distaccata, nonostante i suoi tentativi di provocarmi. In un rapporto in cui ero stata costantemente fatta sentire pazza, sono rimasta sorpresa dalla mia posizione decisa. Avevo comunque paura di come avrebbe potuto reagire.

Nei giorni precedenti a quell’incontro faccia a faccia, avevo constatato in lui una nuova impudenza. Quando ho smesso di rispondere alle sue telefonate ha iniziato a chiamare ripetutamente mia madre a notte fonda, inventando una storia sul fatto che la Polizia sospettava che mi fossi introdotta in casa sua e mi aveva mosso delle accuse, che però lui poteva cancellare se fossi stata ragionevole e lo avessi incontrato. Quando questo non ha funzionato, ha minacciato di venire a casa mia e di darmi una lezione – dopo tutto, mi ha ricordato, era stata anche casa sua, e aveva la chiave.

Era sempre stato profondamente “privato” nel suo abuso, camuffandolo di modo che non me ne accorgessi neanche io. Ora che le sue tattiche abituali di coercizione stavano fallendo sembrava disperato. Cos’altro avrebbe fatto?

Quando l’ho visto nel vialetto di casa il pomeriggio successivo ho provato una scossa di paura, ma anche qualcos’altro: impudenza, rassegnazione, bisogno schiacciante di verifica e desiderio che l’abuso terminasse – a qualsiasi costo. Ho scelto di affrontarlo piuttosto che scappare via.

Ho pensato che se mi avesse fatto del male almeno la verità sarebbe venuta a galla. La gente sarebbe stata costretta a prenderne atto e a testimoniare.

Io stessa sarei stata costretta a prenderne atto e a testimoniare.

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La violenza domestica è uno standard di comportamento abusivo messo in opera da un partner per ottenere o mantenere il potere e il controllo sull’altro. Non è necessariamente fisica, e infatti molti sopravvissuti alla violenza domestica affermano che la violenza emotiva è ben più dannosa di quella fisica. È stato sicuramente il mio caso.

Il nostro rapporto era fisicamente violento, ma in modo leggero. Il mio abusatore mi spingeva, e in due occasioni mi ha afferrata così forte da lasciarmi dei lividi. Nel nostro scontro fisico più grave, mi ha gettata a terra e mi ha stretto le mani intorno al collo, ma dopo un anno mi sminuiva costantemente, metteva in discussione la mia realtà e la mia sanità mentale e cicli di intenso amore e odio alla Dottor Jekyll e Mister Hyde questa nuova violenza sembrava una progressione naturale.

Il mio abusatore non mi ha spezzato le costole o fatto un occhio nero. Quella era violenza domestica, l’avrei riconosciuta e me ne sarei sicuramente andata.

No, mi dicevo. Quello che stavo sperimentando non era un abuso, ed era completamente colpa mia.

Il punto è che l’abuso inizia gradualmente con piccole violazioni dei confini che aumentano se gliene viene data l’opportunità. Accanto ai brutti momenti ce ne sono anche di bellissimi – abbastanza per rimanere e sperare che alla fine questi momenti fantastici prevalgano.

Ma l’abuso non migliora – almeno non senza un intervento esterno.

L’abuso non viene dal nulla; ci sono molti segnali.

Visto che col tempo peggiora, la cosa migliore è riconoscere presto i segnali di avvertimento e agire rapidamente.

Ecco tre segni che vorrei aver riconosciuto subito:

1. Pomposità e diritto

In uno dei nostri primi appuntamenti, il mio abusatore mi confidò: “Avrei voluto nascere in un’altra epoca: alla mia età, Giulio Cesare, Napoleone Bonaparte e Alessandro il Grande avevano tutti già conquistato interi mondi”.

Ho cercato di mascherare la mia incredulità: “E credi che avresti potuto essere Giulio Cesare?”

“Sì”, ha risposto. Volevo ridere, ma mi rendevo conto che era serio. Mi sono sentita a disagio e ho cercato di ignorare la cosa. Sapevo già che era spavaldo, ed ero attratta dalla sua sicurezza.

Vorrei aver preso la cosa più sul serio, mentre mi diceva esattamente chi era. La sua non era soltanto un’arroganza innocua; era una delusione di grandeur mista a senso di diritto.

Le persone pompose si ritengono migliori delle altre, e quindi in diritto di agire in un certo modo (ad esempio come vogliono) e di ricevere una certa reazione (essere adorate e/o obbedite).

Gli abusatori, in particolare, si sentono in diritto di controllare le loro vittime. È per questo che alle persone esterne sembrano del tutto normali: abusano solo delle persone sulle quali sentono di avere un diritto.

2. Minare gli istinti positivi

Al termine del nostro primo appuntamento, il mio abusatore mi sussurrò: “Non credere alle piccole bugie della tua psiche, che cercheranno di difenderti contro il nostro amore profondo e reale, di cui ha paura”.

All’epoca ho trovato le sue parole incredibilmente romantiche. In realtà non lo erano affatto: mi stava chiedendo di mettere a tacere sia la mia capacità di pensare in modo razionale che i miei istinti positivi, riponendo la mia fiducia in lui.

Volevo credere a questa visione romantica, e quindi l’ho fatto, ingorando il mio crescente senso di disagio, le prove schiaccianti e i modi sempre più creativi e disperati in cui il mio subconscio cercava di mettermi in guardia – inclusi incubi regolari in cui mi tradiva o cercava di uccidermi.

3. Erosione crescente dei confini

Un’altra delle prime tattiche impiegate dal mio abusatore è stata anche una delle sue preferite: la gradualità. “La gente si abitua a tutto”, diceva. “Tutto può diventare normale”.

Io ne sono diventata la prova vivente.

I suoi sforzi sono iniziati in modo sottile: metteva in discussione le motivazioni di alcuni amici maschi, e quindi ho smesso di trascorrere del tempo con loro. Non si sentiva a suo agio alle feste in cui c’era dell’alcool, per cui entrambi abbiamo smesso di bere in assenza dell’altro. Ovviamente questo non bastava, e ho smesso di andare a qualsiasi festa in cui ci fossero delle bevande, e ho smesso di pensare che avrei potuto – o dovuto – avere amici maschi.

Nel corso del tempo il suo controllo è aumentato, e le sue tattiche si sono intensificate. Avevo bisogno della sua approvazione per il modo in cui spendevo il denaro, per quando dormivo, dove e quando viaggiavo, chi vedevo, come trascorrevo il mio tempo a livello professionale – alla fin fine per come pensavo.

Se non seguivo i suoi desideri, spesso inespressi, mi rimproverava, mi ignorava completamente, mi abbandonava (qualche volta in luoghi pubblici in cui dipendevo da lui a livello di trasporto, e una volta chiudendomi fuori casa di notte nel freddo di febbraio), rompeva o nascondeva le mie cose, minacciava il suicidio o si tagliava di fronte a me, o ancora mi intimidiva a livello fisico.

La gradualità è stata fondamentale per le sue strategie personali di controllo e manipolazione – come lo è per quelle di altri abusatori. Visto che era tutto sottile e negabile cedevo, sperando che compiacendolo avrei conquistato un po’ di pace. Ma questo gli dava solo il coraggio di andare oltre.

La nostra fine, e il mio nuovo inizio

L’ultima volta in cui ho visto il mio abusatore ho avuto paura ma ho anche sperato che mi avrebbe picchiata, dandomi la prova finale del fatto che dovevo abbandonarlo. Sono stata fortunata ad essere sopravvissuta a quell’incontro: solo negli Stati Uniti, ogni anno 1.500 donne vengono uccise dai partner, e corrono il rischio più alto – 70 volte superiore – di essere uccise nelle due settimane successive al momento in cui hanno abbandonato il partner.

Per mia fortuna, il mio abusatore non ha provato a uccidermi. L’abuso è ciclico, e lui era nella fase “aspirapolvere”, in cui cercava di risucchiarmi mostrando un miglioramento temporaneo. Quel giorno ha tirato fuori tutto il suo fascino, rimorso e dolore. Mi ha quasi convinto.

Venivo cullata in un falso senso di sicurezza: il mio abusatore non mi avrebbe fatto del male a livello fisico quando voleva ancora che credessi – quando lui stesso voleva credere – che era una brava persona. Ho accettato di incontrarlo il giorno dopo per discutere i dettagli della nostra separazione.

Mi ci è voluto oltre un anno di terapia per iniziare a capire che l’unica chiusura del rapporto che potevo ottenere non sarebbe arrivata da lui. Un giorno mi piacerebbe scrivere pubblicamente delle mie esperienze.

Ma non ancora.

So che devo ancora stare molto attenta. Il mio abusatore crede che un giorno capirò l’errore che ho commesso e che tornerò correndo da lui.

Ma se questo mi fa stare al sicuro glielo lascerò pensare.

Oggi scelgo la vita.

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]
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