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La verità, vi prego, sull’amore

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don Fabio Bartoli - La Fontana del Villaggio - pubblicato il 12/10/16

Prima di iniziare il nostro lavoro, quindi, sarà opportuno precisare bene il tema: che cos’è questo amore di cui stiamo parlando? Infatti oggi il termine è spesso usato in modo talmente equivoco e banale da renderlo incomprensibile o inutile.

«Due volte san Giovanni nella sua lettera ci dice che Dio è amore (1Gv 4,8.16) e non è mai stata detta cosa più sublime di Dio. Né dell’amore» (L. Alonso Schökel). Non abbiamo ancora preso abbastanza sul serio l’affermazione di Giovanni. Non in tutte le sue conseguenze esistenziali e metafisiche. Essa tra l’altro significa che tutto ciò che esiste è una forma e una conseguenza dell’amore. Se Dio è amore e se ha creato dal nulla, allora tutto ciò che non è amore è nulla. È un nulla metafisico ed esistenziale, una non-esistenza, una non-relazione. Solo l’amore è. E tutto ciò che esiste, esiste in una relazione, in un rapporto, come dice il libro del Siracide: «Tutte le cose sono a due a due, una di fronte all’altra, egli non ha fatto nulla di incompleto. L’una conferma i pregi dell’altra» (Sir 42, 24-25). Tutto esiste dunque ricevendosi in dono dall’Amore. Essere è essere-amato. Lo stesso io dell’uomo, come dice Søren Kierkegaard nel prologo de La malattia mortale, è un rapporto. Senza amore la nostra vita non ha senso e noi risultiamo in definitiva incomprensibili a noi stessi, anzi perfino incapaci di conoscerci e di sapere chi siamo. Se Dio è amore, anche l’uomo, che ne è l’immagine e la somiglianza, ultimamente è amore; anzi, è abbastanza evidente in Gn 1,27 che l’uomo è immagine di Dio, e dunque persona, solo nella polarità maschile/femminile: è l’amore che da individui ci fa persone.

Di quale amore parla l’Evangelista? Anders Nygren ha pubblicato nel 1936 un brillante e fortunato saggio dal titolo Eros e Agape nel tentativo di smarcare l’amore di Dio da quello umano. Ma è davvero possibile tracciare una linea di demarcazione che possa dividere un amore dall’altro? Abbiamo a disposizione un rasoio abbastanza affilato da separare e tagliare all’interno della coscienza ciò che è della carne e ciò che è dello spirito? Per la via di Nygren si finisce con il pensare l’amore come una forza sovrapersonale e generalizzante, un amore all’umanità più che alle persone concrete, un amore generico senza un tu concreto da amare e senza un io amante. Ma in verità in ebraico (come in italiano del resto) non esiste divisione tra philìa, eros eagape, le tre forme dell’amore note ai Greci, giacché tutte le forme dell’amore rientrano nel lessema hbd.

È questa unicità dell’amore il presupposto teologico, il fondamento stesso, dell’inserimento del Cantico nel canone ispirato. Se fosse realmente possibile distinguere tra amore umano e divino, tra eros e agape, se queste fossero due forme radicalmente diverse dell’amore non accomunate in radice, leggere il Cantico come parte della Bibbia sarebbe una bestemmia. Più ancora, non avrebbe senso pensare il matrimonio come sacramento e dovremmo gettare via buona parte del libro di Osea o i canti più alti di Isaia o la pagina più ispirata della lettera agli Efesini o il mirabile finale dell’Apocalisse…

Al tempo stesso però sappiamo che l’amore umano, anche il più alto ed elevato, è sempre immagine di un Amore superiore. Scrive Romano Guardini:

«Dio è il solo che può essere amato in senso totale e definitivo. Forse nel fondo dell’esperienza dell’amore, anche del più felice e ricco, sta l’impossibilità di un adempimento ultimo. Forse avviene che l’amore verso l’uomo non riesca mai del tutto a dispiegare la sua forza estrema, perché l’uomo resta troppo piccolo per tale misura, che l’altro non possa essere circondato dall’intimità suprema dell’affetto, perché sempre resterà una distanza. Forse l’uomo, in rapporto a questo fallimento ultimo di ogni amore terreno, presagisce che vi è ancora un altro amore, che non è mai dato di attuare verso una persona umana, al quale l’oggetto e la forza, il “tu” e il cuore, l’avvertire il contatto e l’avvicinarsi, devono essere necessariamente donati. La Rivelazione mostra questo amore. Qui si pone il mistero della verginità».

In definitiva, come osserva Guardini, l’amore erotico, sponsale, non può trovare il suo compimento e appagamento pieno in se stesso. Anzi, nel punto più alto dell’amore, al vertice dell’eros, si affaccia la consapevolezza che l’amore non basta, ma sempre esige un Oltre e un di più, rimandando a Dio, solo amore, vero amore, e quindi a una verginità consacrata.

Matrimonio e verginità non solo non sono nemici, ma si presuppongono e si sostengono vicendevolmente. In questo vertice dell’amore eros e agape, amore ascendente e discendente, desiderio e dono, convergono e mostrano di essere in realtà un unico amore. Questo perché carne e spirito non si contrappongono, ma sono due forme dell’essere uomo, due facce della medesima medaglia e dunque non può esistere un’amore meramente carnale, ridotto al solo desiderio, o non sarebbe amore, come non ne può esisterne uno puramente «spirituale», cioè del tutto privo di desiderio, poiché nemmeno Dio stesso ama così.

È la grande intuizione di san Bernardo che osa attribuire a Dio la categoria della concupiscentia. Sì: Dio non è solo il termine del mio amore, ma egli stesso mi desidera, vuole unirsi a me con una unità così piena da dare le vertigini al più sfrenato dei libertini, con un erotismo così passionale che nessun amante ha mai conosciuto in questo mondo. Ha poca importanza dunque il fatto che il Cantico sia stato scritto originariamente come una raccolta di canti erotici del tutto profani. Collocandolo nel canone la Sinagoga prima e poi la Chiesa ne hanno dato una «lettura autorevole» che ne ha di fatto trasformato il senso, e ha ragione rabbi Aqiba quando dice che il mondo intero non vale il Cantico dei Cantici, perché esso è «il santo dei santi» tra i testi biblici, senza il quale tutti gli altri perdono significato e valore, oppure lo pseudo-Atanasio che lo definisce «il culmine di tutte le profezie».

Se l’amore, senza perdere di intensità, potesse coinvolgere e abbracciare tutti gli uomini, ciascuno con una singolarità e una esclusività paragonabile a quella degli sposi, così che ognuno possa sentirsi amato in modo unico e irripetibile, questo non potrebbe che essere l’amore di un Dio. Se ciascuno in questo amore si sentisse invitato a una convivenza stretta fino alla fusione, al diventare una sola cosa, questo amore non potrebbe che passare attraverso la carne, attraverso l’umanità, ed essere quindi l’amore di un Dio fatto uomo. Se l’uomo, nonostante la sua finitezza e il suo peccato, potesse ricevere per Grazia una «dilatazione del cuore» tale da consentirgli di partecipare a questo amore soprannaturale in tutta la sua intensità e in tutta la sua estensione, allora questo amore divino, reso umano, non potrebbe che innalzare l’uomo al rango di Dio e divinizzarlo.

Leggere Shir-ha-Shirim, «il più bello dei cantici», significa quindi avventurarsi in cerca di questo amore, in un viaggio che ci conduce dal più basico dei nostri istinti alla più alta delle esperienze mistiche, fino a essere, noi che siamo nati animali, elevati al rango di Dio.

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