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Spiritualità
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5 passi spirituali per relazionarci meglio al nostro peccato

peccato senso di colpa – sin guilt

Stefan Ivanovic / Shutterstock

Catholic Link - pubblicato il 12/10/16

Questo è un tema che raramente ho visto affrontare con chiarezza. E non so esattamente perché. L’idea che mi sono fatto è che si parli del peccato in forma astratta o utilizzando una terminologia accademico-teologica che il cristiano comune non sempre capisce. Tuttavia si tratta di un tema chiave della vita cristiana: siamo tutti peccatori e, che lo vogliamo o meno, abbiamo spesso a che fare con tutta la crudezza esistenziale del peccato che commettiamo. Danneggia noi e le persone che amiamo. Questa esperienza dolorosa – quasi sempre carica di sentimenti, pensieri ed impressioni spirituali – ha poco o nulla di astratto o accademico. E bisogna imparare a gestirla con una fede cristiana equilibrata, che da un lato non cedi alla disperazione e allo scoraggiamento, e che dall’altro abbia la maturità di non scadere in discussioni di tipo volontaristico, in cui la grazia di Dio è puramente ornamentale e che finiscono col bruciare, senza alcuna distinzione, sia il grano buono che la zizzania presenti nella nostra vita.

Nella mia vita cristiana ho sempre pensato che il diavolo non avrebbe avuto pace fino a quando non fosse riuscito ad indurci a cadere nel peccato. Adesso sono invece sicuro che il diavolo allenti la presa soltanto quando noi abbiamo la pretesa di sentirci perdonati. Non fraintendetemi, il diavolo non è affatto cambiato. Semplicemente sa, come lo sapete anche voi, che il peccato – se compreso e gestito nella maniera corretta – può essere fonte di grazia e portare a un grande cambiamento nella vita del credente. Ecco perché la caduta è il punto di inizio di una lotta molto più complessa tra le forze del bene e quelle del male. In base a come ci rapportiamo al nostro peccato possono accadere due cose: o percepiamo l’immensità del perdono di Dio e ci apriamo all’abbraccio di Cristo crocifisso, oppure possiamo entrare in un processo autoreferenziale ed autolesionista in cui la confessione e la penitenza diventano dei meccanismi psicologici con i quali ci sentiamo temporaneamente perdonati. È soltanto in quest’ultimo caso che il tentatore trova pace; cioè quando riesce a legarci e ad allontanarci dal dialogo d’amore che Gesù vuole avere con noi.


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Spero che sia chiara l’importanza del tema che voglio affrontare. Ma adesso andiamo avanti. Dunque, come bisogna agire con i propri peccati? Ho diviso la mia proposta in alcuni “passi”, ma ci tengo a specificare che si tratta di una divisione artificiosa. Spesso questi momenti avvengono simultaneamente nel cuore e nella mente della persona, altre volte sono invece parte di un processo composto da vere e proprie fasi.

1. Riconoscere il male compiuto

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Anche se non è un’esperienza piacevole, bisogna saper prendere coscienza del male fatto, mostrando serenità ma anche fermezza. In questo momento dobbiamo diventare gradualmente in grado di riconoscere l’errore ed assumerci la responsabilità che ne deriva. Niente di più e niente di meno. È molto importante anche considerare eventuali attenuanti o aggravanti alla nostra colpa. I sentimentalismi che ci portano ad esagerare la nostra colpa non aiutano affatto. Desiderare di stare male, malissimo anzi, non ci permette in alcun modo di assumerci le nostre responsabilità. È piuttosto un modo per deviare l’attenzione su noi stessi, dando al diavolo l’opportunità di seminare le sue spine. Riconoscere il male compiuto non significa neanche fare pronostici su eventi non ancora avvenuti (“Non si fiderà più di me…”) o ipotizzare azioni diverse da quelle già realizzate (“Se avessi agito diversamente…”). Questi atteggiamenti ci fanno distogliere lo sguardo dalle cose essenziali, portandolo – nuovamente – sui nostri sentimenti. In questa fase bisogna semplicemente guardare alle cose in modo obiettivo, e rimuovere quelle cose che ci impediscono di chiamare le nostre azioni col loro nome: “peccati”.

2. Pentirsi

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Nel paragrafo precedente ho introdotto una “diga” ai giudizi di valore e ai sensi di colpa, perché è importante gestire il nostro dolore e incanalarlo nei solchi della fede. Altrimenti il male commesso diventa pura sofferenza, priva di significato e senza alcuna speranza. La sofferenza intesa come pathos, nel senso greco del termine: cioè «forte afflizione dell’anima», un dolore che colpisce le pareti del cuore e aggredisce la persona, abbatte l’autostima e in molti casi conduce la psiche all’esaurimento e alla tristezza.

È diverso il dolore per i propri peccati, se incanalato nella fede? Totalmente. Il dolore resta dolore, ma non si sperimenta più come pathos, bensì come penthos; cioè come cordoglio, è un dolore inquadrato nella relazione con un’altra persona, e non più con se stesso. È una differenza sostanziale, perché – benché persista la sofferenza di aver offeso l’altro – il dolore non è intensamente cieco come nel caso precedente, ma tende verso un Volto. È un pentimento da ricercarsi all’infuori di sé, una ricerca di perdono che non si potrebbe mai trovare in se stessi. . E, come sappiamo, il perdono di Dio non arriva mai in ritardo; il Signore corre verso il peccatore pentito e trasforma il suo dolore in doglie di parto, in lacrime di gioia. E mostra il Suo amore, immenso e immeritato; un amore che ci rigenera e ci fa vivere di nuovo – perdono dopo perdono – nel profondo e meraviglioso mistero della nostra condizione di figli.

In questo modo, ci dice Padre Rupnik, «non è il cuore a spezzarsi, ma sono le catene che lo intrappolano a frantumarsi. Così il cuore può finalmente tornare a battere, libero, senza limiti. Il pentimento è un movimento che porta all’abbraccio (…), che dirige la persona verso una relazione fatta di libertà, in cui tutto – anche la colpa – si interpreta alla luce di un rapporto più genuino, più vicino, cioè alla luce del Suo volto».

C’è una differenza abissale nell’accostarsi al sacramento della riconciliazione dopo aver sperimentato il penthos invece delpathos. Ma voglio trattare questo punto, in modo più esteso, più tardi.

3. Integrare la fragilità

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Non voglio che la suddivisione da me apportata vi confonda. Integrare la fragilità non è una tappa intermedia tra il pentimento e la confessione. È, piuttosto, un’attitudine spirituale trasversale a tutto questo processo. Integrare la fragilità significa riconciliare la nostra condizione di figli amati con il fatto che il peccato esiste nelle nostre vite ( e probabilmente esisterà sempre). Questo apparente paradosso dell’amore divino non è secondario nel cristianesimo. Per San Paolo «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Romani 5:8). Vi chiedo di leggere attentamente. San Paolo non dice “quando ci siamo comportati bene, Cristo è morto per noi”, né tantomeno “quando ci siamo pentiti, è morto per noi”. No, le parole esatte sono le seguenti: “Mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”. Ed è così che Dio “dimostra” – cioè ci fornisce prove, evidenze – il suo amore. Un argomento che fa cadere ogni dubbio.

Qualcuno è riuscito a percepire la differenza che fa questa frase nella vita cristiana? Preparatevi, perché siete davanti a un grande mistero. Significa che la mia debolezza può essere una porta d’accesso a una delle esperienze più intense e belle dell’amore di Dio nella mia vita; e che dunque la stessa santità «non si trova all’opposto bensì al cuore stesso della tentazione, non ci aspetta al di là della nostra debolezza ma al suo interno» (André Louf).


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Una volta un caro amico mi ha detto di correre a confessarsi ogni volta che commette un peccato. Non so se questo sia un consiglio giusto o sbagliato, so soltanto che fuggire dal peccato non deve significare fuggire dalla nostra condizione di peccatori. Integrare la fragilità è, nelle parole di Louf, «imparare a dimorare nella nostra debolezza … e nello stesso tempo abbandonati alla misericordia di Dio». Chi rifiuta costantemente la propria fragilità e ne fugge come se fosse una malattia contagiosa, non sta integrando ciò che di sbagliato è presenta nella sua vita, ma sta soltanto privandosi della grazia e della misericordia, gli unici due balsami che sono in grado di farci guarire dalle ferite del peccato.

Infine, per essere concreti, come facciamo a sapere se stiamo integrando correttamente la nostra fragilità? Chi comprende che l’amore di Dio possa nascere nei terreni più difficoltosi inizia, poco a poco, a relazionarsi al proprio peccato non più secondo un pathos autoreferenziale, bensì secondo un’esperienza di penthos, aperta al voltodi Dio. Cioè con l’esperienza di dolore e gioia di chi sa che Cristo, attraverso la Sua croce, può caricare su di Sé ogni oscurità personale. Essere capaci di gettare la nostra miseria sulla croce ci libera da una relazione col Signore incentrata sul peccato. Una relazione che si vive con angoscia, sempre piegata al senso di colpa, in cui chiediamo sempre – in modo confuso – che Dio ci dica qualcosa o ci faccia sentire il Suo perdono. Una corretta integrazione del male nella nostra vita dovrebbe portarci ad essere in grado di relazionarci a Dio mettendovi al centro Lui e il Suo amore, godendo di tutta la grandezza e la profondità della nostra relazione con Cristo. Il peccato è un argomento di cui si parla con Lui, ma non costituisce né l’unico né il più importante elemento della relazione. Vorrei aggiungere, usando un simbolo: la croce è come un attaccapanni d’oro al quale Gesù ci invita ad appendere le nostre miserie, affinché possiamo entrare alleggeriti – quali figli redenti che siamo – nel santuario della nostra relazione con Dio.

4. Confessione e riconciliazione

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La chiave per realizzare una buona Confessione sta nel permettere a Dio di essere Dio. “Si, lo so, ho peccato. Ho fatto questo e quello perché non sapevo chi fosse davvero Dio, né il modo in cui salvasse. Ma adesso lo so, e lo comprendo. Da adesso non lo farò più. Inoltre, Signore, mi pento e ti prometto che farò questa penitenza e quel sacrificio, perché ho peccato. D’ora in poi, Signore, sappi che farò così, e starò attento a questo e a quello”… Se dopo esserci confessati abbiamo un pensiero di questo tipo, Padre Rupnik lo definirebbe un ragionamento «totalmente chiuso nell’ego, che usa la forma del dialogo ma in realtà è un monologo. Non riesce a portare ad una vera relazione, ma mostra che continuiamo a fare la nostra volontà, proponendoci di fare sacrifici, di migliorare, di svolgere attività di carità, di agire da eroi o di fare opere pie. Tutte cose buone in sé, ma ispirate dal proprio ego».

È fondamentale non utilizzare la Confessione come un meccanismo psicologico per sentirci meglio o come un importante traguardo per poter riprendere il nostro combattimento spirituale. La confessione è un sacramento nel quale entriamo davvero in contatto con la grazia e con la misericordia di Dio, sparse nei cuori di chi vi si accosta per merito della croce di Cristo.


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È l’abbandonarci tra le braccia della misericordia, ciò che ci rigenera e ci cambia. E lasciarci avvolgere dall’amore incondizionato di Dio quello che rende morbidi i cuori di pietra, trasformandoli in cuori di carne. Coloro che riescono a vivere la Confessione in questo modo «si riconoscono sempre di più – ci dice Padre Rupnik – nell’immagine di Pietro nel cortile del Sommo Sacerdote, che davanti alla serva rinnegò ogni sua promessa e giuramento. Totalmente ignudo e disarmato, senza più orgoglio né pretesa di meritarsi misericordia e perdono, viene raggiunto da uno sguardo inaspettato di misericordia e bontà». È questo lo sguardo che ha trasformato la vita di Pietro, facendolo diventare il santo che è. Uno sguardo che l’ha amato nel momento più duro e miserabile della sua vita, proprio quando non era in grado di pronunciare alcuna giustificazione, né di riempirsi la bocca di promesse. Perché il suo tradimento e la sua meschinità erano sotto gli occhi di tutti… cosa ha dovuto fare Pietro per uscire da questo buco nero? Volete proprio saperlo? Non ha fatto niente! Ha semplicemente permesso alla sguardo di Cristo di attraversarlo… si è semplicemente lasciato amare. Questa esperienza, secondo me, riflette il senso pieno della Confessione.

5. Il combattimento spirituale e le ricadute

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I propositi di cambiare non sono sbagliati in sé, non voglio condannarli. Tuttavia vanno inquadrati nella cooperazione con la grazia e la provvidenza di Dio. In molti casi questo richiede da parte nostra una buona dose di pazienza e fiducia, perché la grazia di Dio è misteriosa e i Suoi sentieri non sono i nostri sentieri. Vi ricordate cosa fecero Marta e Maria quando suo fratello Lazzaro si ammalò? Mandarono un messaggio a Gesù, dicendogli che il suo caro amico stava molto male. Sapete cosa fece Gesù? Niente di niente! Restò dove si trovava per altri due giorni. Naturalmente Lazzaro morì. Il dolore delle sorelle deve essere stato davvero intenso, soprattutto perché conoscevano la cura alla malattia del fratello, che però non arrivò mai. Potete immaginarvi lo stato d’animo di Marta e Maria quando Gesù si fece vedere? Marta fu l’unica che trovò la forza di affrontarlo e di rimproverare il suo atteggiamento, Maria non ebbe neanche il coraggio di alzarsi, probabilmente per il dolore e la troppa delusione. Non voglio trattenermi sul bel dialogo tra Gesù e Marta (che io considero uno dei più belli del Vangelo), ma desidero citare la frase che ha pronunciato Gesù dopo aver ascoltato le lamentele di Marta. Le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?».

Credo che il combattimento spirituale e l’esperienza di tornare a cadere negli stessi peccati abbiano molto a che vedere con l’esperienza delle sorelle di Lazzaro nel contesto della morte del fratello. Come Marta e Maria, anche noi possiamo fare di tutto per evitare che il male sia presente nella nostra vita. Possiamo persino mandare dei messaggi a Gesù, e tuttavia il male e il peccato appaiono nuovamente. Gesù è di nuovo in ritardo? Mi ha negato la Sua grazia? Sono domande comprensibili che rivelano però una maniera molto umana di comprendere l’opera di Dio. In realtà l’unica da porci è quella che Gesù fece a Marta: «Credo io che Cristo sia la Risurrezione e la Vita, che se ho fede in Lui, anche se muoio, vivrò?». A questa domanda bisogna dare una risposta molto sincera.

Gli sforzi personali per evitare la morte di Lazzaro sono fondamentali, e lo sono ancora di più le richieste di aiuto a Gesù. Il dolore per la morte, le lamentele verso il Signore e anche la timida difficoltà di Maria nell’approcciare Gesù sono delle cose comprensibili, da vivere con naturalezza. Gesù stesso si commuove per le nostre reazioni, e ci consola… ma la cosa più importante è la domanda che ci pone il Signore: «Credi che il mio amore per te sia più grande del tuo peccato?». La risposta affermativa a questa domanda è, secondo me, il cuore de, combattimento spirituale, il solco che canalizza gli sforzi personali e la luce che ci aiuta a non perdere la speranza davanti alle nostre ricadute. L’amore del Signore è più grande del nostro peccato e la grazia di Dio – anche se non sempre comprendiamo i Suoi modi – non ci lascerà mai morire, seppur dovessimo «morire».

Questa certezza genera nel peccatore un’esperienza spirituale piena di pace, serenità e speranza. Il modo migliore, secondo me, di cooperare con l’azione riconciliatrice di Cristo. Se abbiamo chiaro questo principio, le promesse di cambiamento e gli sforzi personali sono un qualcosa di positivo, che non corre il rischio di portare la persona ad una lotta autoreferenziale e volontaristica contro il peccato.

QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Valerio Evangelista]

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