Il diario di un coma «perché vada perso il meno possibile della vita»
«E guarirai da tutte le malattie, perché sei un essere speciale, ed io, avrò cura di te».
A questo verso della meravigliosa canzone di Battiato fa pensare il libro di Alessandro Mazzochel: “La caduta delle farfalle” (Città Nuova editrice), un diario in cui l’autore racconta la storia vera della sua ragazza malata di bulimia alla quale scrive mentre lei è in coma in ospedale a causa di un arresto cardiaco.
«MI ACCORGO CHE STAI MORENDO»
Quando Wendy si sente male è in casa con il fidanzato, è mattina presto e stanno dormendo, lui inizialmente sente dei rantoli, crede che si tratti di un incubo e prova a svegliarla. Poco dopo si accorge che il viso della giovane è cosparso di macchie viola e gialle, che le esce schiuma dalla bocca e che ha le braccia rigide…
«(…)mi accorgo che stai morendo… Ora, mentre scrivo queste righe, riprendo in mano il tuo cellulare, ripercorro le chiamate… ecco, il 118 l’ho chiamato alle 6.29. Nove minuti da quando ho sentito i tuoi rantoli. Per quasi quattro minuti cerco di spiegare all’operatore la situazione, dove abitiamo e che soffri di bulimia. Mi dice di chiudere la conversazione e spostarti su una superficie rigida. Sollevo il tuo magro corpo dal letto, la testa mi scivola dalle braccia, credo di averti fatto del male ma con l’avambraccio ti sollevo e riesco a portati in salotto, sopra il tappeto. (…) Sono quasi certo che tu oramai sia morta. Dopo qualche istante, alle 6.34, mi richiama l’operatore. Mi fa mettere un cuscino sotto i tuoi capelli, come ho fatto a non pensarci? Apri gli occhi di scatto, lo sguardo fisso, senza luce, perso nel vuoto, forse per sempre… quello dei morti… Mi chiede se respiri. Non lo so, non lo capisco».
«L’HAI SALVATA»
Aiutato dall’operatore al telefono, Alessandro comincia il massaggio cardiaco e così le salva la vita:
«Ogni colpo di massaggio è un rantolo di aria cavernosa (…) e poco dopo sento in lontananza una sirena. Le braccia hanno ormai perso vigore, mi rendo conto di aver diminuito il ritmo ma resisto finché non sento vicinissima l’ambulanza. (…) Il dottore e l’infermiera, dopo aver tastato la gola, mi dicono: «Questa è in arresto cardiaco». Temevo dicessero: «Questa è andata». Poi tutto avviene velocemente. Estraggono il defibrillatore da una sacca di plastica nera e iniziano a praticare le prime cure. «È bulimica», continuo a dire. «Ha preso troppi calmanti?», insiste a chiedere il dottore. «Non penso, non è tipo, non lo ha mai fatto», rispondo. (…) Sono sicuro, ma cerco per scrupolo mentre loro continuano con il massaggio cardiaco e un’altra defibrillazione. Rovisto ovunque, in frigo, nella dispensa della cucina, nel bagno, nelle borse, nei comodini… Non trovo nulla. Torno. Dopo la terza defibrillazione riparti a respirare. «Qui è stato il parente», commenta la donna, ai tuoi piedi. «Sono stato io?», chiedo preoccupato «a rovinare qualcosa? Ho causato io l’arresto?». «No, l’hai salvata», mi rispondono tutti e tre. «Andava bene quello che ho fatto, allora?»; me lo confermano».